«Apprezzo molto il linguaggio semplice, chiaro, comprensibile dove è evidente che l’interlocutore a cui parla siamo tutti, ciascuno può facilmente ascoltare e capire ciò che dice. Questo mi sembra uno sforzo di comunicazione importante». Mauro Magatti, sociologo dell’Università cattolica di Milano, analizza quanto emerso domenica scorsa durante l’ingresso in Diocesi di monsignor Delpini. A partire da un linguaggio per tutti, che non è solo forma, ma anche sostanza.
Come valuta l’omelia di ingresso del nuovo Arcivescovo?
Sottolineo due aspetti. Primo: si pone come se facesse una proposta di un’autorità fraterna. Apparentemente è un ossimoro, invece penso che sia una proposta importante: il saluto reiterato a fratelli e sorelle è un modo di rileggere la nostra contemporaneità. Dove è affermato il principio democratico, le autorità vengono tendenzialmente rifiutate, messe in discussione. C’è un modo di porsi evangelico tipico della Chiesa: essere un’autorità nella fraternità. Questo ha un significato molto forte, perché è il modo attraverso cui oggi possiamo recuperare una dimensione dell’autorità, non quindi un appellarsi a una istanza astratta, ma passare da questo elemento per recuperare la capacità di parlare a tutti.
E il secondo aspetto?
Nello spirito di papa Francesco, quando parla della gloria: la gloria di ciascuno di noi non è legata al successo, alla produzione, al denaro, al potere, quindi a una gloria mondana. È invece una gloria che riguarda la nostra costituzione antropologica. Proprio per questo, allora, la centralità di chi è fragile, non è un atteggiamento da Ong, ma teologico, ed è il punto da cui il cristianesimo è sempre ripartito per spingere avanti anche i processi sociali e politici. Queste mi sembrano le due note forti che sono però espresse in una maniera non concettuale, non astratta, quindi passano tra le righe, ma in maniera molto efficace, raggiungendo persone di livelli sociali molto diversi.
Come ha già sottolineato, Delpini ha chiamato tutti fratelli e sorelle, non solo i credenti, ma anche altre confessioni e religioni, istituzioni, aprendo un dialogo anche con i non credenti…
Se uno passa in rassegna i vari soggetti che sono chiamati in causa coglie questa modalità fraterna dove tutti, ciascuno nella propria diversità e nel proprio ruolo, sono chiamati a una relazione. In un’epoca in cui il discorso pubblico invece tende a creare fratture, contrapposizioni, chiusure, muri, credo che questo sia un atto linguistico che segna chiaramente una direzione che l’Arcivescovo vorrà tenere.
Infatti l’Arcivescovo lancia con coraggio un messaggio di speranza, in controtendenza con il lamento, il pessimismo, la paura…
Certo. La speranza rischia spesso di essere una vocazione retorica, soprattutto quando le cose non vanno bene. Mi sembra invece che nel discorso l’Arcivescovo eviti questo rischio. È chiaro che la speranza di cui parla è fondata nella fede che la rende non banale, è l’espressione degli occhi diversi che la fede aiuta ad avere rispetto alla realtà che però è difficile.
Non nascondendo i problemi attuali quando invita a non disperare dell’umanità, con un’attenzione in particolare verso i giovani…
Sì, realismo e speranza nel discorso cristiano sono le facce della stessa medaglia. È bella anche questa sottolineatura dei giovani, perché è un segno importante di chi comincia un Magistero, perché si riconosce che la vita sociale e personale è sempre dinamica e centrata sul rapporto tra le generazioni.
L’Arcivescovo rilancia e ripropone una tradizione ambrosiana molto radicata nel tempo…
È molto significativo, perché spesso diciamo che la Diocesi ambrosiana è una delle più grandi del mondo. Credo invece che l’importanza non sia tanto la dimensione, quanto piuttosto che Milano è sempre stato un luogo dove il cristianesimo – e in particolare la Chiesa – è stato capace di dialogare col mondo e con la storia; è stato uno dei punti più luminosi nella storia della Chiesa con questa capacità di dialogo costruttivo e fruttuoso. La sottolineatura fa ben sperare che l’Arcivescovo voglia, come peraltro ha detto richiamando i suoi predecessori, continuare questa tradizione.