Ho cercato la lentezza, ma non l’ho trovata. È stata rubata al nostro tempo, che insieme ha subito altri furti, tra cui l’attesa e la leggerezza. Così siamo rotolati lungo la china di ritmi convulsi e stressanti, che paghiamo con investimenti emotivi eccessivi, e il problema ha finito per riguardare tutti, persino le agenzie educative, dalla scuola alla catechesi.
Un tempo, per esempio, quando salivi su un treno che ti portava da una città all’altra, entravi in una dimensione temporale alternativa. Lasciavi che i pensieri veleggiassero lentamente intorno a te e ti concedevi un periodo sospeso, in cui le preoccupazioni si rintanavano nella zona ripostiglio dell’anima e la testa si faceva linda e tersa come dopo le pulizie di primavera: era arrivata l’ora della leggerezza. Poteva capitare allora che si facessero esercizi di attesa. Guardavi il viso avvizzito della persona di fronte a te e dai lineamenti ricostruivi l’aspetto giovanile, per contemplare lo splendore del passato e scovare una bellezza ancora presente: era questo uno dei modi in cui più che altro facevi del bene a te stessa. Ma poi veniva sempre il momento in cui la corsa degli alberi oltre il finestrino si sfocava e nel cuore si apriva una cavità di silenzio, che escludeva dalla coscienza ogni disturbo, e nel silenzio irrompeva, inconsciamente desiderata, la preghiera: il Signore ha sempre saputo approfittare delle sospensioni dell’anima. Così si apriva l’infinito e quando arrivavi alla meta ti accorgevi di averla in realtà già raggiunta e di averne captato la grazia. Ora gli smartphones si sono mangiati l’attesa: i pollici in azione disegnano espressioni concentrate, aprono immagini e notizie, creano comunicazione, ma spesso impediscono i movimenti profondi dell’anima.
Ho cercato ancora la lentezza e l’ho trovata. Dove meno l’aspettavo l’ho trovata: si aggirava in un gruppo di bambini che andavano con la catechista nei boschi del loro paese. Il sentiero era ampio e agevole e i ragazzi procedevano lentamente. Strano, di solito i bimbi corrono. Ogni tanto si fermavano in ascolto e cercavano uccelli tra le fronde e corse di scoiattoli e chiacchiere di amici; riuscivano perfino a trovare piccoli fiori che si credevano scomparsi, per farne ghirlande dal sapore antico, e le more… ah come sono buone le more! E tutto ciò che veniva raccolto finiva tra le braccia di Marta. Già, c’era Marta, paraplegica, ed era proprio la sua carrozzina a dettare il ritmo leggero della passeggiata. I bambini non sapevano che cosa avrebbero trovato all’arrivo, e l’attesa plasmava la curiosità e svegliava l’allegria. Ma quando giunsero, la sorpresa superò l’aspettativa: c’era la merenda, certo, ma c’era anche un’icona col volto di Gesù appoggiata tra i rami di un vecchio castagno. I bimbi si fermarono, gli sguardi ridenti cercarono gli occhi della catechista e quasi spontaneamente, come evocata dalla lentezza, la preghiera sbocciò e prese slancio.
Benedetta Marta, allora, ma benedetto anche Teo, con il passo calmo da non vedente, e Lia, che ci mette un po’ di più a capire e così dà anche agli altri il tempo di pensare. Se vogliamo ritrovare lentezza, attesa e leggerezza, dobbiamo chiederle alla fragilità. Sono i bambini con disabilità i nostri docenti: in essi si compie la rivoluzione che trasforma mancanze e dolore in risorse e possibilità per tutti. Nel loro ritmo ritroveremo il nostro. Non vedo strada migliore né più grande urgenza, se vogliamo dare una sterzata antropologica alla folle corsa di un materialismo dimentico da troppo tempo dei veri bisogni dell’uomo.