«Faccio l’elogio della fierezza che sarà uno dei temi che tratterò nel Discorso alla Città di Sant’Ambrogio. La fierezza di chi sa che ha le risorse, le capacità, la voglia di affrontare i problemi e di risolvere le situazioni. Vi lascio due parole per guardare al futuro e perché questa pandemia non passi invano: sapienza e speranza». A dirlo è l’Arcivescovo al termine della mattinata trascorsa presso l’Istituto dei ciechi di Milano, eccellenza che onora la città, l’Italia e che il mondo ci invidia. Una visita articolata all’interno dei 20 mila mq della storica e magnifica sede di via Vivaio, quella compiuta dall’Arcivescovo, che ha incontrato vertici, personale, assistiti e portato la sua benedizione a realtà diverse, tra storia, presente e futuro dell’Istituzione che da quasi 200 anni sostiene persone con disabilità
La visita ai laboratori e al Museo
Accompagnato dal presidente Rodolfo Masto, l’Arcivescovo è così entrato nei laboratori che aiutano a «vedere con le mani», dove, per esempio, pannelli a rilievo spiegano a livello tattile ciò che altrimenti non potrebbe essere accessibile ai non vedenti, come le grandi architetture della facciata del Duomo, della Scala, del candelabro Trivulzio, solo per fare alcuni nomi.
«Venti anni fa avevamo 140 ragazzi affetti solo da disabilità visiva, ora 450 anche con handicap aggiuntivi, per cui bisogna reinventarsi», sottolinea il presidente Masto (vedi qui sotto l’intervista).
Accanto a lui, per l’occasione, ci sono anche Lamberto Bertolè, assessore alle Politiche Sociali del Comune, con la fascia del Primo cittadino, l’assessore alla Famiglia, Solidarietà sociale, Disabilità e Pari Opportunità di Regione Lombardia Alessandra Locatelli, e don Mauro Santoro, responsabile della sezione Disabilità del Servizio diocesano per la Pastorale della Salute.
Poi la visita all’ampio Museo che racconta, tra cimeli d’epoca, volumi, oggetti, quadri dei benefattori e benefattrici, cosa è ed è stato l’Istituto, inaugurato nel 1840 nella sede di via San Vincenzo dal cardinale Karl Kajetan Gaisruck, arcivescovo di Milano. Una sorta di struttura autonoma, dove fino al 1970 c’era posto per il panettiere o il dentista, le suore e, soprattutto un sacerdote interno che, in alcuni casi, implementò anche gli studi e i rapporti internazionali dell’ente, come accadde con Parigi.
Il Centro diurno, la Rsa e la Scuola
Insomma, un grande passato alle spalle e un grande domani, sempre al passo con i tempi, come si rende evidente nel Centro diurno per disabili inaugurato con la benedizione dell’Arcivescovo, che si è soffermato successivamente nella Rsa dell’Istituto capace di accogliere 25 ospiti. E, ancora, la Scuola media statale “Vivaio” con i suoi 240 ragazzi, una realtà unica a livello nazionale per attività sperimentali sviluppate anche grazie alla sinergia con la Fondazione, presso la cui sede è ospitata.
Con orgoglio viene illustrata all’Arcivescovo la storia del grande organo sperimentale risalente al 1901, restaurato e funzionante – «il primo non in una Chiesa» -, con la sua consolle originaria del 1919, un vanto per l’epoca.
Infine, nella Sala Barozzi che porta il nome del primo ideatore dell’istituto, Michele Barozzi, a porgere il saluto di benvenuto è sempre il presidente Masto, che ricorda come il tradizionale incontro di Natale con l’Arcivescovo sia «quest’anno un simbolo di ripresa dopo un periodo davvero difficile». Riavvio che vedrà tornare presso l’Istituto, proprio nella sala Barozzi, il prossimo 15 gennaio, l’appuntamento dedicato al dialogo tra l’Arcivescovo e i giornalisti.
«Milano deve diventare più saggia»
Di «gratitudine e ammirazione per quello che l’Istituto ha fatto e fa», parla monsignor Delpini che dona una versione del Vangelo di Luca in greco, tradotto in braille.
Arriva anche un’anticipazione di uno dei temi che verranno trattati nel Discorso alla Città (basilica di sant’Ambrogio 6 dicembre, ore 18.00), ossia la fierezza. «La fierezza di chi sa che ha le risorse, le capacità, la voglia di affrontare i problemi e di risolvere le situazioni. Milano si caratterizza per l’accoglienza e la generosità: anche questa Istituzione, con le sue eccellenze, con il servizio che ha reso a tante generazioni di non vedenti, ipovedenti e di altre forme di disabilità, dimostra che siamo in grado di sostenere le sfide. Questa fierezza milanese non è semplicemente un vanto, ma la consapevolezza di saper affrontare le questioni. In questo momento Milano è presa da una frenesia che va interpretata perché tutto questo correre, avere sempre fretta, può essere un segno di tale fierezza, del “volercela fare” dopo mesi desolanti. Ma occorre sapere dove andiamo».
Un interrogativo che rimane in sospeso e per rispondere al quale l’Arcivescovo suggerisce due parole «a questa Milano così intraprendente e capace di attirare tanto; parole che sono anche il mio augurio: la prima è speranza, perché la vita non è un correre come pungolati da qualcosa che sta alle spalle, ma è un andare avanti perché vi è una meta che attende. La divina Provvidenza è una concezione della storia che dice che la vita viene da una promessa, non dalla capacità di produrre. La seconda parola è iscritta nella nostra tradizione e si chiama sapienza, che vuol dire avere il gusto delle cose, saper distinguere il bene dal male».
Il pensiero va al passato, perché sia di insegnamento per il presente. «Dopo la peste del 1576-’77 san Carlo Borromeo scrisse un messaggio ai milanesi perché quella tragedia non passasse senza insegnare qualcosa. Anche oggi Milano deve imparare, diventare più saggia. La pandemia è stata anch’essa una tragedia e dobbiamo ancora stare attenti perché non passi invano. Sapienza e speranza ci aiutino a non sbagliare strada e a non essere stolti».