«La mia vita è la vita nascosta di Nazareth. Pregate per me, affinché io sia ciò che Gesù vuole. L’obbedienza è la misura dell’amore» (Charles de Foucauld). Non mi ha mai molto affascinato la figura di de Foucauld, almeno fino a questo viaggio, all’incontro con un bambino a Midedlt, cittadina dell’Atlante. Era circa l’ora del tramonto: passeggiando con alcuni amici verso una stradina sterrata, mi si avvicina un ragazzo in bici con uno zaino sulle spalle. Mi sono detto: «Perché non avvicinarmi e presentarmi?». Sono andato da lui e gli ho chiesto in inglese, poi in francese: «Come ti chiami?». Pronuncia un nome che non ricordo, ma ho impresso nel cuore il suo sguardo; non potevo fare nulla per lui e nemmeno me lo ha chiesto. Gli ho teso la mano e mi sono presentato; gli ho sorriso e l’ho salutato ed è andato per la sua strada.
Il vero credente
Quell’incontro mi è rimasto nel cuore: non ho salvato il mondo o convertito una popolazione intera. Ho sorriso, ho amato per qualche frazione di secondo; posso azzardare a dire di aver incontrato Dio? Senza dubbio. San Charles non ha convertito nessuno, non ha fatto altro che amare coloro con i quali sto è sentito chiamato a vivere, quelli che Dio gli affidato in cura (amore).
Nel mio essere prete in questi quasi sei anni ho percorso la strada pericolosa di misurarmi sulla base dei risultati ottenuti, delle persone convertite. Il primo ateo sono io. Quel bambino mi ha chiesto (forse, eh) di essere amato per quello che era e di lasciare andare per la sua strada. Un credente mi chiederebbe solo di essere io stesso un vero credente, ancora prima di chiederlo ad altri.
L’incontro con l’Islam nelle persone in questi giorni ha ridestato in me il desiderio di essere un vero credente, un discepolo autentico e sempre in cammino. Per me questo è obbedire alla realtà, obbedire al Vangelo, obbedire alla volontà di Dio: rimanere e amare rimanendo lì dove Lui mi ha piantato. Se è vero, come afferma Charles, che l’obbedienza è la misura dell’amore, questi giorni sono stati obbedienza anche alla fraternità che è il presbiterio.
Il senso della fraternità
«Anche se si occupano di mansioni differenti, sempre esercitano un unico ministero sacerdotale in favore degli uomini. […] Ciascuno è unito agli altri membri di questo presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità» (PO 8).
Non potrei che essere cieco per non accorgermi di coloro con cui vivo la passione per il Vangelo, per Gesù e per la gente, non solo per l’evidenza del numero di partecipanti al pellegrinaggio, ma per il rapporto fraterno e a volte anche di amicizia tra noi. La fraternità che è il presbiterio per me è casa, è l’origine della mia vocazione ed è per me il modo di essere prete che mi rende felice e pieno: insieme. Obbedire all’essere presbiterio per me è amare e servire la mia Chiesa ambrosiana in verità. Questi giorni di pellegrinaggio ogni anno per me sono stimolo e dono per questo; li considero irrinunciabili.
Il passaggio presso la trappa di Notre Dame de l’Atlas è stato un ritorno affettivo importante alla figura splendida del monaci di Tibhirine: undici anni fa, alle soglie della maturità, la loro figura, il dono della loro vita, non solo mi accompagnò all’esame di Stato nella tesina sul ruolo dell’intellettuale nel Novecento, ma mi spinse un poco più in là: entrai in Seminario.
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