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Tu partecipi spesso a serate, dibattiti e iniziative in ambito oratoriano: ti riesce ancora facile proporre a giovani e giovanissimi lo sport come scuola di vita?
Davanti a queste “contaminazioni”, è diventato indubbiamente imbarazzante cercare di trasmettere valenze positive proprie dell’idea originale dello sport. E l’impatto è tanto più negativo quanto più risulta facile imitare le cose sbagliate rispetto a quelle giuste: anche i ragazzini, quando giocano, si buttano a terra simulando, oppure si tolgono la maglia dopo i gol…
Un esempio positivo è stato sicuramente quello di Torino 2006: un grande successo italiano, organizzativo, sportivo e d’immagine…
Una cosa davvero molto bella. In partenza c’erano alcune perplessità, soprattutto sulla cosiddetta “freddezza” di Torino, che invece ha accolto i Giochi con un calore e una convivialità straordinari. È andato tutto bene a livello organizzativo e abbiamo avuto risultati positivi sul piano sportivo, il che naturalmente ha aiutato a sconfessare ulteriormente le “nere” previsioni della vigilia.
E dopo le Olimpiadi, le Paralimpiadi, una lezione di sport e di vita…
Peccato che non siano state adeguatamente valorizzate dai mass media… Gli atleti “diversamente abili” hanno davvero vissuto come un privilegio la partecipazione ai Giochi, hanno gareggiato con il sorriso e proposto un momento di aggregazione positiva e festosa senza che l’ansia di risultato guastasse il tutto.
Tu, tra l’altro, segui con particolare simpatia una squadra di special olympics…
Sì, si tratta di una squadra di hockey in carrozzina formata da ragazzi afflitti da distrofie muscolari. Quando posso, assisto volentieri alle loro partite perché ne viene un messaggio straordinario e di fondamentale importanza: comprensione, convivenza e comunione d’intenti nel nome di un agonismo che unisce e non divide.
Come l’abbraccio tra Valentino Rossi e Loris Capirossi, splendidi rivali in un recente, tiratissimo Gp d’Italia motociclistico…
Non era un gesto di maniera, ma una cosa sentita da entrambi: dopo una gara di alto valore spettacolare ed emotivo, con la vittoria contesa fino all’ultimo, questi due ragazzi erano ugualmente contenti di essersi divertiti e di aver entusiasmato il pubblico. È chiaro che chi vince sarà sempre più felice, ma anche chi perde – se ha dato il massimo – deve sentirsi a posto con la coscienza. Lo sport dovrebbe essere così e non perdere il senso del “gioco”, che alla fine – al di là dei soldi, della fama, della gloria – mantiene anche il professionismo in limiti moralmente accettabili. (m.c.)