Nella Messa che nella Basilica sotterranea di Lourdes conclude il pellegrinaggio diocesano «Tu fortitudo mea», ciò che si può dire è solo «grazie», per i giorni vissuti, per la serenità e la fraternità sentite ovunque, per la fede che reso indimenticabili tanti momenti. Così come suggerisce – anzi scandisce – l’Arcivescovo.
Laddove gli eventi inevitabili che subiamo, come diventare vecchi, o che riguardano solo la nostra responsabilità, ci trasformano, così possiamo e dobbiamo, in ogni caso, chiederci – come indica la second lettera di san Pietro – cosa stiamo diventando: «L’autore della lettera ci incoraggia a disporsi per un’altra storia, per un’altra libertà, per vivere la vita come una vocazione, una risposta a colui che ci ama, ci chiama, attraverso una via irrinunciabile a diventare partecipi della natura divina. Perciò, possiamo domandarci cosa stiamo diventando, quale storia stiamo scrivendo». Nasce da qui l’invocazione affinché «questo percorso sia caratterizzato dalla perseveranza, come fu per Maria, “Tu fortitudo mea”». Insomma, si tratta di essere costanti nel rispondere il nostro sì.
“Tu fortitudo mea”, «perché abbiamo ricevuto il dono della fortezza, perché le difficoltà non ci scoraggino, il tempo non spenga la gioia, i buoni propositi non siano mortificati nella banalità della inerzia quotidiana». E fare tutto questo chiedendosi seriamente cosa ciascuno porterà a casa dal pellegrinaggio, comprendendo a pieno «ciò che Gesù ha detto nell’intimo di ogni persona, la parola di cui avevamo bisogno, l’emozione che ci ha convinto ad alzare lo sguardo e ad aprirsi a una nuova fiducia».
Proprio per questo, l’unica parola deve essere “grazie”, «per l’amore che abbiamo ricevuto e che ci ha reso capaci di amare». Come si rende evidente nella «esemplare testimonianza di tanti pellegrini presenti, come pure dei molti che non sono qui», secondo quanto osserva l’Arcivescovo al termine della celebrazione, ricordando i sacerdoti, i diaconi e una religiosa festeggiati in alcuni loro importanti anniversari della loro scelta vocazionale. Tra questi, oltre ovviamente lo stesso Arcivescovo – che ricorda il 14° di ordinazione episcopale e il giorno del suo ingresso solenne in Diocesi, 4 anni fa -, il cardinale Scola che ha festeggiato i 30 anni da vescovo e monsignor Roberto Busti, vescovo dal 22 settembre 2007.
«Un cuore solo e un’anima sola»
Durante il viaggio di ritorno a Milano l’Arcivescovo ribadisce i concetti con i quali ha salutato i 1300 fedeli ambrosiani partecipanti a giorni che definisce «benedetti, nei quali siamo stati un cuore solo e un’anima sola».
«Siamo quelli del “grazie” perché il seme deposto nel nostro campo continua a produrre molto frutto e lo saremo ancora perché in ogni pena abbiamo sentito una carezza, in ogni solitudine abbiamo accolto una parola amica; perché in ogni buon proposito abbiamo ricevuto la persuasione che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio». Un ringraziamento che deve divenire anche quel sorriso «imparato da Maria, la donna del Magnificat, gioiosa nel servire».
Per questo il pensiero va «al mare di bene fatto dalla nostra gente», possiamo continuare «la missione della Chiesa, poiché, nella condivisione, abbiamo sperimentato che le pene diventano meno penose, le gioie più grandi e vogliamo svegliare la gratitudine nei giovani e in una società invecchiata e spenta».
La speranza dell’Arcivescovo è che tutti siano «grati al Signore, a noi stessi per la testimonianza offerta, sempre sorridenti verso gli altri. L’incisività di ciascuno nella storia è data dal credere che abbiamo un compito, che questa nostra terra, questo tempo hanno bisogno di gente forte. Noi milanesi, ambrosiani siamo fieri di mettercela tutta. Vogliamo tornare a casa con il coraggio che traiamo da Maria, come fece il cardinale Ferrari».