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Sirio 16 - 22 dicembre 2024
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Milano

L’Arcivescovo: «La disabilità è una scuola di vita»

Dibattito alla Fondazione Speranza Oltre Noi (Son). Oltre a monsignor Delpini («recuperiamo il valore di risorse come la lentezza e il sorriso»), sono intervenuti Ferruccio de Bortoli («il nostro capitale sociale è fatto delle cure alle persone disabili») e don Virginio Colmegna («la fragilità è di tutti, l’individualismo porta al delirio di onnipotenza»)

di Annamaria BRACCINI

15 Novembre 2024
Una fase del dibattito

Parte dal testamento di Sammy Basso, il noto attivista affetto da una rarissima malattia di invecchiamento precoce e morto il 5 ottobre scorso, l’intervento dell’Arcivescovo nell’incontro promosso dalla Fondazione Son – Speranza Oltre Noi con il titolo «La dignità della persona fragile; inclusione e solidarietà oltre l’assistenzialismo». A dialogare con lui, nell’affollato Auditorium della sede della Fondazione, il presidente don Virginio Colmegna e Ferruccio de Bortoli, notissimo giornalista e già presidente della Fondazione Vidas. 

Monsignor Delpini cita, infatti, alcune frasi del testamento. «Basso ha scritto: “Quello che spetta a noi è agire sulla retta via sopportando e, per l’amore degli altri, trasformare un evento negativo in uno positivo. Non si tratta di trovare elementi positivi, quanto piuttosto di crearli”. Una frase – spiega –  che mi ha colpito, non perché la disabilità sia un bene, ma perché possiamo far sì che la situazione lo diventi. Questo mi sembra sia alla nostra portata: per esempio, esercitando il magistero della lentezza, che può essere ritenuta un limite e che, invece, ci dice che lo stare insieme è più importante dell’arrivare alla meta. C’è poi quella risorsa che è il sorriso. Le persone disabili sono un principio di serenità, per noi sempre arrabbiati e di corsa, perché sono capaci di sorridere e questo mi commuove molto. È una scuola», ha aggiunto l’Arcivescovo rispondendo a una domanda posta dalla vicepresidente di Son, Gemma di Marino.

La Fondazione Son

Una scuola e un esempio di civiltà come lo è l’intera idea portante della Fondazione – soci fondatori sono don Virginio Colmegna, l’associazione Amici Casa della carità e il Ceas (Centro ambrosiano di solidarietà) – e la sua presenza sul territorio, avviata nella logica del progetto, “Abitiamo il futuro”, per cui si è realizzato un vero e proprio villaggio solidale dove genitori e figli adulti con disabilità hanno potuto iniziare a sperimentare una propria vita in autonomia, pur rimanendo in un contesto famigliare e inseriti dentro un sistema di relazioni con il quartiere. Famiglie per le quali si era cominciato a porsi il problema del cosiddetto “Dopo di noi”.

Da qui la scelta del luogo adatto individuato nell’area di Cascina San Carlo in via Trasimeno, nel cuore del quartiere Adriano (periferia Nordest della città), a circa 700 metri dalla Casa della carità. Nel 2017 la nascita di una prima associazione, poi l’inaugurazione il 24 ottobre 2022 e, dal gennaio seguente, l’operatività. La Fondazione ospita 12 persone, attualmente in appartamenti, arricchiti da una sala polivalente e da un appartamento del sollievo immersi nel verde, essendo, di fatto, il primo progetto edilizio di nuova costruzione realizzato a Milano, ispirato alla legge del “Dopo di noi”.

L’intervento di Ferruccio de Bortoli

Investire sul futuro

«Il rapporto tra chi assiste e chi è assistito è paritetico, permette di riscoprire se stessi e gesti, parole, sorrisi che, nella nostra quotidianità, riteniamo privi di importanza. L’ho toccato con mano come presidente Vidas – conferma de Bortoli -. Riscopriamo, così, angoli sperduti della nostra umanità di cui non sappiano o non ricordiamo l’esistenza. Noi che viviamo in una condizione assolutamente fortunata, impariamo a dare peso alle cose e alle persone con la loro dignità. Non basta dire che tutti hanno pari dignità, bisogna realizzarlo e il nostro capitale sociale è fatto delle cure alle persone disabili. Oggi credo che il termine “inclusione” – citato in una seconda domanda della Vicepresidente, ndr – sia svuotato nel suo significato: vogliamo essere tutti inclusivi in una società che fa dell’esclusività una rivendicazione continua. Dobbiamo superare l’ipocrisia: ci sarà sempre qualcosa in più che si può fare, ma se al di là di ciò che costa, si tratta di un investimento per il futuro, perché produce bontà nelle relazioni umane, questo ci farà essere cittadini più avvertiti e attenti al prossimo».  

L’intervento dell’Arcivescovo

Ognuno può dare qualcosa

Sull’inclusione risponde anche l’Arcivescovo: «Credo che a convivere si impari in famiglia. Se qualcuno ha un fratello, una sorella disabile, la cosa diventa normale. Nella famiglia la vita viene considerata e accolta in ogni sua variabile. La famiglia è la scuola di vita da cui si genera la società in un principio di coesistenza affettuosa», sottolinea ancora, parlando della sua esperienza come presidente dell’Opera San Vincenzo: «Nato come “Istituto dei deficienti” e questo già dice molto dell’importanza delle parole e della strada fatta. Però quell’Opera aveva l’idea che ciascuno è capace di fare qualcosa. Lo sforzo e la preoccupazione che ha mosso tanti sacerdoti, una presenza storica nelle nostre terre fondando simili istituti, sono molto interessanti, perché ci dicono che ognuno deve essere incoraggiato a fare quello che può».

«In terzo luogo dobbiamo chiedere a una persona disabile cosa dia essa stessa alla società: anche solo un sorriso ha un valore che non si può pagare. Inclusione vuole dire avere reciprocità di servizio, ovviamente di natura diversa».

Cosa può fare la comunità cristiana

Chiara la convinzione di de Bortoli sulla responsabilità dei credenti: «Noi dobbiamo prepararci ad affrontare un futuro con la presenza di molte più malattie croniche di quelle odierne, con un numero di grandi anziani e non autosufficienti in aumento. Sarà immaginabile che lo Stato non possa fare tutto, e non si può lasciare solo al mercato questo aspetto dell’assistenza, ovviamente. Bisogna fare in modo che ci siano forme di collaborazione tra privato e pubblico, per esempio un’assicurazione obbligatoria sulla non autosufficienza, che ora sarebbe, però improponibile e molto impopolare. Ritengo che, tuttavia, con il capitale sociale del volontariato e delle associazioni cattoliche e non, si possa fare fronte».

Il richiamo è alle tante difficoltà poste dall’amministrazione pubblica. «Vidas – racconta il giornalista – da 4 anni è impegnata a costruire una struttura nel Parco Forlanini per soggetti deboli e siamo alle prese con la burocrazia, ma fortunatamente la nostra è una società generosa e abbiamo tanti donatori. Il passaggio migliore, se le aziende devono e vogliono essere sostenibili nel loro territorio, è occuparsi delle fragilità del territorio stesso. Occorre il coraggio civile, sociale, politico di guardare in faccia la povertà e le fragilità. Il passaggio non è economico, ma civile: una comunità si deve sentire più forte avendo la coscienza pulita che le persone che soffrono sono state messe nella condizione di essere pienamente cittadini. È il “salto” che dobbiamo e possiamo affrontare, anche perché dovremmo essere poco più orgogliosi di ciò che già si fa. Il bene è contagioso».

Il pubblico presente

Dare speranza e fare festa insieme

«Io penso – scandisce ancora l’Arcivescovo – che abbiamo da dire e da dare a tutti la speranza, il rapporto con Dio, la preghiera. C’è il tema della vita quotidiana, che deve essere sostenibile nel concreto con forme di assistenza e di garanzia, ma noi abbiamo bisogno di Gesù e di spiritualità. Una necessità oggi sottovalutata, mentre è determinante. Questo ci dà il fondamento radicale della dignità della persona anche disabile. La Consulta diocesana “Comunità cristiana e disabilità” si intitola “O tutti o nessuno”, proprio perché nessuno deve essere ritenuto estraneo al rapporto con Dio attraverso Gesù. Le nostre comunità pregano poco e, forse, non sanno nemmeno come pregare insieme», conclude l’Arcivescovo, richiamando la bellezza della Messa domenicale delle 10 celebrata presso la Sacra Famiglia di Cesano Boscone, con ospiti, operatori, volontari, parenti: «È un trionfo della gioia di essere figli di Dio. Dobbiamo fare festa insieme: se questo tema nella società è dimenticato non lo può essere nella comunità cristiana».

L’intervento di don Virginio Colmegna

Colmegna: «Fondamentale la tenerezza»

Il “grazie” finale è affidato a don Virginio Colmegna. «Bisogna affrontare i problemi partendo da un grande coraggio, come ha detto l’Arcivescovo in una delle sue recenti omelie, noi cristiani siamo originali e qui lo siamo tutti. Questo Auditorium è dedicato al cardinale Martini» che volle Casa della carità e del quale, a muro sono incise alcune frasi che richiamano appunto la debolezza di ognuno di noi. «Il tema della tenerezza, della mano nella mano, sono fondamentali. La fragilità è di tutti, mentre l’individualismo porta al delirio di onnipotenza e all’economia di guerra, dove si sente un criterio drammatico che chiude ogni esperienza di futuro. La fragilità è, invece, la possibilità di condividere nella debolezza, perché siamo figli di un Dio inchiodato in croce che soffre e segno di risurrezione».

«Nella religiosità di un “Dio fai da te”, manca l’oltre che è il dopo di noi. Bisogna cambiare cultura – non a caso, “Son”, nasce anche come progetto socio-culturale – e il paradigma. Il lavoro della comunità cristiana oggi ha uno spazio enorme di evangelizzazione se si interroga sul senso del vivere. Si deve scavare nelle motivazioni dell’impossibile che si fa possibile. Per questo abbiamo voluto collegare il nostro cammino a quello della pace. Consideriamo, per esempio, che le guerre in atto lasceranno un numero enorme di disabili. C’è un bisogno immenso di parlare di fragilità e di povertà come temi centrali, così come della povertà della Chiesa che non è non solo nel senso materiale, ma di entusiasmo».