132 Pietre d’inciampo diffuse tra le mille strade della grande metropoli, che, con la loro piccola presenza nell’asfalto – davanti ai portoni di case dove non tornarono ebrei, partigiani, resistenti – parlano, dopo decenni, raccontando solo un nome, una data, una morte violenta, una vita consumata per la giustizia. Tra questi segni che qualcuno ha avuto anche il coraggio di oltraggiare, da qualche giorno c’è anche la “Pietra” di via Villoresi, dedicata al giovane presidente della Fuci milanese Carlo Bianchi, ucciso a Fossoli il 12 luglio 1944 insieme ad altri 66 martiri.
Per celebrare l’evento e ricordare il 25 aprile, la Fondazione Ambrosianeum – anche in questo anno così difficile – non ha mancato di promuovere un incontro, rigorosamente su piattaforma, insieme coinvolgente e commovente nel ricordo, appunto, di Carlo Bianchi, di molti suoi compagni e di tutti coloro che, cristianamente, condividevano la stessa sete di libertà e giustizia. Così, Marco Garzonio, presidente dell’“Ambrosianeum”, ripercorre, moderando l’assise a distanza, la storia della Fondazione nata 75 anni fa e voluta, tra gli altri, da Giuseppe Lazzati, appena tornato dal campo di concentramento, dal senatore Enrico Falck, anche lui imprigionato, per arrivare al cardinale Schuster.
Insomma, «una radice, una collocazione» di questa meritoria istituzione che ha avuto in figure come monsignor Giovanni Barbareschi, punti fermi di riferimento, nell’organizzazione di mostre e convegni, memorie sulla resistenza toccando, spesso, realtà non gradite a certe ricostruzioni di parte, ma illuminando sempre il ruolo del contributo cristiano, delle suore, delle donne nella Resistenza. Come non pensare al Foglio fondato da Bianchi e Teresio Olivelli, oggi beato, “Il Ribelle”, ristampato, in edizione anastatica, proprio dall’”Ambrosianeum”?. «La sintesi di questa cultura dei ribelli per amore – il titolo del bel volume a cura di don Barbareschi che raccoglie le testimonianze dei preti che non si piegarono al nazifascismo – è essere qui stasera», spiega Garzonio, che aggiunge. «Noi, come diceva Barbareschi, facciamo memoria “per” e non “contro” qualcuno. Non esistono liberatori, ma popoli che si liberano. Questo è il messaggio dei preti, delle suore e dell’intera Chiesa ambrosiana: un’attivazione personale».
Da qui l’annuncio della realizzazione di un docufilm dedicato proprio a don Barbareschi. «Vorremmo poterlo portare nelle scuole facendo conoscere e ritrovare ai giovani il segno di questa liberazione interiore». Non a caso, l’incontro si intitola “Dalla Resistenza al futuro, il compito di educare”. Una responsabilità che l’Arcivescovo sottolinea nel suo intervento iniziale.
Le parole dell’Arcivescovo
«Vorrei parlare di quello che non è scontato: che gli errori non si ripetano, che le tragedie vissute insegnino a non provocare altre tragedie, che l’infelicità inferta e provata eviti di far soffrire e di soffrire. Non è scontato che la storia sia maestra di vita e questo si applica alla responsabilità e alla proposta educativa che non è detto che abbia risultati garantiti».
Chiaro il riferimento a un presente nel quale «è come se ci fosse una voragine che inghiotte il fiume, per cui l’acqua non arriva a fecondare la campagna». Una metafora per dire «che oggi la trasmissione dei valori è fortemente contrastata e che, in molti casi, gli adulti si sentono mortificati e impotenti perché quello in cui hanno creduto e sofferto, ritenuto decisivo per la vita, non convince i figli, i nipoti, i discepoli. Educare è un compito, una responsabilità da cui, però, non ci si può dimettere», scandisce il vescovo Mario.
E questo non solo «per onorare il ricordo dei martiri, rievocare pagine gloriose di una storia dei nostri padri di cui siamo giustamente fieri e non solo per sentirci all’altezza dell’eredità che abbiamo ricevuto. Noi commemoriamo con la responsabilità di educare».
Un’intenzione ben espressa con l’immagine della Pietra d’inciampo, ancora una volta una «metafora per la responsabilità educativa, un segno per dire che vi può inciampare chi cammina svagato, come talvolta può essere una giovinezza. La pietra è qualcosa di duro: educare non è affidare al vento le parole perché il vento le porti dove vuole, è piuttosto essere una presenza in cui si inciampa; è quella proposta che invita alla traversata del deserto, perché così è la vita. Educare è chiamare per nome e dire: “vieni è ora, andiamo”; non è accontentare le esigenze della pianticella nella serra, non è sedurre con la dinamica del merito e della ricompensa, non è accondiscendere alle aspettative e ai capricci, ma è inserire le persone in un popolo in cammino. È una chiamata per l’individuo a fare parte di un popolo perché il deserto non si può attraversare da soli».
E, ancora «non è portare qualcuno al supermercato dove sono offerti tutti i prodotti disponibili perché se ne scelga uno che comunque va bene. È far percepire una differenza, un’appartenenza che diventa un criterio per distinguere il bene e il male». Quasi un identikit di Carlo Bianchi, quello tracciato dall’Arcivescovo: «un uomo che, in questo senso, è una Pietra di inciampo perché ha capito con chiarezza il valore di una fede da praticare, di una proposta che interpella; perché ha vissuto la sua responsabilità in un’aggregazione come l’Azione Cattolica, in un popolo che cammina; perché la chiarezza della proposta, l’appartenenza a un’associazione ha dato i criteri per dire sì e no anche a rischio della vita».
Le testimonianze
Poi, i ricordi di Pia Majno Ucelli di Nemi, 99 anni, staffetta partigiana delle Fiamme Verdi, figlia del fondatore del Museo della Scienza e della Tecnologia – anche la madre era resistente e fu arrestata con il marito -, che si sofferma su Carlo Bianchi, Ernesto Rovida, lo stampatore de “Il Ribelle” e di tanti documenti per far espatriare e creare nuove identità a ebrei e partigiani -, don Giovanni Barbareschi e Teresio Olivelli; ma anche su sua sorella e la cognata impegnate nella lotta clandestina. «Impressi tutti loro – dice – come pietre di inciampo nella mia memoria, esempi di una rivolta morale contro un modo violento di vivere, contro l’illegalità e il tradimento; contro la passiva accettazione per tornare a vivere. Sia questo il seme per un’Italia migliore».
Anselmo Palini, professore bresciano, saggista molto noto con una ventina di volumi all’attivo su questi temi, autore di un recentissimo saggio su Teresio Olivelli, ripercorre la biografia di Bianchi e, nell’alternanza con la lettura di brani e lettere interpretati da Livia Rossi della scuola del “Piccolo Teatro”, definisce il mosaico di quel non cedere alla parola “indifferenza”, iscritta nella pietra all’ingresso del Memoriale della Shoah. Una grande pietra di inciampo per non dimenticare, per fare “tukkùn”, ossia perfezionare, “aggiustare” il mondo. La preghiera del “Ribelle”, scritta da Teresio Olivelli e riconosciuta, nel suo alto valore spirituale, anche da resistenti non credenti e comunisti, risuona, infine, come un monito sempre attuale.
A concludere è Carla Bianchi Iacono, figlia di Carlo, nata un mese dopo la morte del padre, che si affida anch’essa alla lettura di stralci, partendo dall’omelia del cardinale Schuster, per i 67 martiri di Fossoli. Lo stesso Arcivescovo che, nella Lettera pastorale del 21 febbraio 1943, invitava gli universitari a adoperarsi per rispondere alle esigenze di una Milano lacerata da bombardamenti e dai lutti. Carlo Bianchi rispose fondando la “Carità dell’Arcivescovo” per l’assistenza ai bisognosi della città, attraverso anche sostegno giuridico e legale. L’opera esiste a tutt’oggi ed è stata insignita dal Comune di Milano nel 2019, dell’Ambrogino d’Oro per i suoi 75 anni di ininterrotta attività. Alla guida, Carla, come ieri, il papà Carlo, morto martire.