Il malfattore appeso alla croce, accanto al Signore Gesù, che fa emergere tutta la sua rabbia e l’altro crocifisso che, anche lui, ha una parola da dire: che la storia è ingiusta, l’innocente è condannato come il malfattore, il giusto muore come l’ingiusto, ma la morte di Gesù è una porta che si apre sul paradiso. È da lui che bisogna imparare. A dirlo, a ripeterlo, perché nessuno lo dimentichi, è l’Arcivescovo, che in Duomo presiede la Celebrazione vigiliare nella Solennità di Cristo Re dell’Universo, con il Rito di Ordinazione dei nuovi Diaconi permanenti. 8 uomini di età compresa tra i 43 e i 57 anni, 7 dei quali sposati con figli, che dopo sei anni di preparazione, si aggiungono ai 144 già impegnati nelle realtà della Chiesa ambrosiana.
«Qui con questi 8 fratelli che si presentano per l’Ordinazione diaconale, possiamo dichiaraci come quelli che hanno imparato dall’altro crocifisso», dice, infatti, monsignor Delpini nella Messa concelebrata dai Vescovi ausiliari Agnesi, Mascheroni e Stucchi, dai Vicari Episcopali di Zona e di Settore (nello specifico, monsignor Ivano Valagussa), dal rettore per la Formazione al Diaconato permanente, don Giuseppe Como, dai sacerdoti delle Comunità di origine e destinazione dei Candidati.
«Quelli che imparano dall’altro crocifisso non sono gli ingenui che credono alle favole, gli illusi che inseguono fantasie. Quelli che sanno che la vita è troppo dura, la storia è troppo sbagliata, il soffrire troppo eccessivo e ingiustamente distribuito. Di fronte allo spettacolo desolante della storia è ovvio che ci sia chi si distrae, chi si stordisce, chi chiude gli occhi e le orecchie, ma per l’altro crocifisso non è più tempo di andare avanti in questa illusione, in una questa inerzia ottusa, in un’opaca indifferenza». Magari, con la favola bella o tragica di coloro che si ribellano attraverso l’insulto cieco e sfogano la loro rabbia con il bisogno di prendersela con qualcuno. Il crocifisso disperato è la voce di molti disperati della terra che non possono accettare di morire e non vogliono credere che sia possibile la speranza».
Al contrario, ci sono, poi, coloro che sperano e che, così, «hanno qualche cosa da dire a tutti, ai cieli, alla terra e ai sotterranei della storia. Infatti, persino negli abissi più impenetrabili del male entra l’annuncio della speranza, perché la nostra speranza non è qualche signore astratto che abita sulle nuvole, è Gesù»
Per questo i Diaconi hanno scelto di farsi servi della speranza. «Se domandate che cosa facciano i Diaconi, quale sia il loro ruolo specifico, quali poteri ricevano con la grazia di questa Ordinazione, rimanete solo alla superficie. Non è l’attribuzione di un potere, l’assumere un ruolo», sottolinea il vescovo Mario.
«I Diaconi sono quelli che hanno imparato dall’altro crocifisso e, quindi, portano all’altare la loro vita, la vita delle loro famiglie, le confidenze, le pene, forse anche la derisione dei colleghi di lavoro, le paure e le speranze degli abitanti dello stesso condominio. Perciò percorrono la terra, salgono le scale del condominio, vanno al lavoro, visitano i malati e condividono, con tutti quelli che incontrano in ogni situazione, la loro speranza».
Gente, insomma, di cui c’è bisogno. «Il Vescovo ha bisogno di questi collaboratori – anche se, talvolta, la Chiesa sembra non se ne sia ancora accorta -, come ha bisogno dei preti perché si formi un corpo di Ministri ordinati sui quali può contare; perché il giudizio sulla vita e sulla morte raggiunga tutti i tempi e tutti i luoghi e perché la testimonianza di Gesù offra a tutti la speranza. Ho bisogno dei preti, dei diaconi, di tutti i battezzati perché si formi una comunità che sia un cuor solo e un’anima sola».
Una chiamata di obbedienza al Signore che non spaventa anche se si hanno responsabilità lavorative, moglie e figli. E, così, il momento nel quale, in casa dell’Arcivescovo, vengono rese pubbliche le destinazioni parrocchiali presso cui i neodiaconi svolgeranno, per i prossimi 5 anni, il loro servizio pastorale e quello liturgico, somiglia più a una festa di famiglia che a una comunicazione ufficiale. Ad esempio, c’è Daniele Pace, classe 1971, tre bambini di cui uno piccolo, nato durante il percorso di preparazione all’Ordinazione diaconale, e che, nella Celebrazione, gattonava felicemente davanti all’altare maggiore del Duomo.
«La mia storia non ha niente di eccezionale, solo che, a un certo punto, senti una chiamata. Non è qualcosa “che viene in mente”, anche se le persone partono spesso da questa domanda per capire perché abbia deciso questa strada. È, invece, una voce che nasce dal profondo e che è impossibile non ascoltare».