Un’assemblea diocesana annuale, che nel 2022 si tinge di un significato particolare per il 35mo anniversario dell’avvio del Diaconato permanente in Diocesi, tanto che al dialogo con l’Arcivescovo vengono invitate anche le mogli dei diaconi. Così più di un centinaio di persone si riuniscono nell’Auditorium “Carlo Maggiolini” di Rho, e poi per la celebrazione eucaristica presieduta da monsignor Delpini nel Santuario della Beata Vergine Addolorata.
Il decreto del marzo 1987 segnava la ripresa, nella nostra Chiesa, dell’istituto del Diaconato permanente (antichissimo, con apice nel IV secolo), annunciato durante il grande convegno «Farsi prossimo» dal cardinale Carlo Maria Martini. Del 1990 i primi sei ordinati, per una realtà che oggi conta 152 diaconi permanenti, di cui l’82% sposati, impegnati per lo più negli ambiti scolastici, dell’assistenza ospedaliera, della pastorale parrocchiale e della carità. Cinque i candidati di quest’anno, che verranno ordinati in Duomo il 5 novembre, e otto gli aspiranti che hanno iniziato il loro cammino solo due giorni fa, sempre in Cattedrale, con il rito di ammissione.
L’introduzione di don Como
A introdurre i lavori dell’assemblea – presenti il Vicario generale, monsignor Franco Agnesi, alcuni Vicari di Zona e il prevosto di Rho, don Gianluigi Frova – è don Giuseppe Como, responsabile della Formazione al Diaconato permanente.
Ricordando il cammino di rilettura di vari documenti preparatori del 1983-’84, approfonditi nello scorso maggio dai diaconi – come quello del Consiglio presbiterale che discusse la proposta o uno di monsignor Luigi Serenthà -, don Como osserva: «Il Diaconato è rappresentato da una missione e da vocazione pastorale, non è una riduzione a un abbellimento liturgico o una forma, diciamo così, superiore di volontariato. Bisogna esserne consapevoli e questo va riconosciuto dai presbiteri. I diaconi dichiarano di amare la Chiesa tanto da mettersi a servizio di essa, magari anche per migliorarla. Sono vicini a chi è lontano esprimendo un compito di evangelizzazione con la loro presenza nascosta, ma efficace, e avvicinando chi è fuori del recinto ecclesiale. I diaconi ambrosiani si percepiscono come uomini di comunione e di ascolto, per un servizio caritativo, missionario e di comunione, come si evidenzia in chi è impegnato nei Gruppi Barnaba».
Insomma, una spiritualità a 360 gradi, anche se non mancano criticità e punti problematici, come l’equilibrio tra le responsabilità diaconali e quelle familiari e professionali.
«Interpretare la grazia»
Dalle domande su cosa significhi, nella vita personale di ciascuno, il Diaconato permanente «come dono per la Chiesa» – interpretando la grazia e il malessere, talvolta, di essere diacono – si avvia la riflessione dell’Arcivescovo: «Noi usiamo le espressioni: “La Chiesa proponga, ci dia delle risposte”, ma la Chiesa siamo noi», sottolinea subito, indicando una sfida precisa: «Quali doni abbiamo ricevuto, quali cammini abbiamo compiuto in questi 35 anni?».
«Occorre interpretare la grazia. Ci sono i documenti, la valutazione delle persone, i cambiamenti della Chiesa, con mutamenti macroscopici per l’estraniazione di alcune fasce di età e l’invecchiamento di altre. Il Diaconato è una grazia per la Chiesa, perché contribuisce a capire ciò che fa l’identità del Ministero ordinato, nel grado sia del Presbiterato, sia del Diaconato. È un’appartenenza per la collaborazione al Vescovo e condizione ne è la comunione che è grazia che lo Spirito fa a questa Chiesa, dando così l’evidenza che il Ministro ordinato non è una gerarchia di compiti – l’uno subordinato all’altro -, ma una diversità di impegni complementari che si definiscono nella comunione. I diaconi capiscono meglio cosa significhi esserlo, perché ci sono i preti e i presbiteri, comprendono meglio chi sono perché ci sono i diaconi. La collaborazione con il Vescovo è variegata». Una ricchezza che, per monsignor Delpini, «si è rivelata con maggiore evidenza là dove la destinazione non è stata l’essere collaboratore di un parroco».
Poi una seconda grazia, che il Diaconato permanente rappresenta per la Chiesa: «Servirla – papa Francesco in Duomo, il 25 marzo 2017, utilizzò la felice espressione, “custodi del servizio nella Chiesa” – così che il diacono renda visibile il legame tra l’altare e la piazza».
Il contributo alla sinodalità e alla preghiera
Ovvio, in tale contesto, il tema di come interviene l’ordinazione diaconale nella vita familiare e civile. «La figura familiare e professionale dell’uomo adulto, che viene ordinato, rende possibile quella capillarità della presenza del Ministero che diventa segno di Vangelo nel quotidiano. L’esitazione cronica delle comunità cristiane a farsi carico dell’evangelizzazione può trovare nel diacono, in particolare nel contributo da offrire ai Gruppi Barnaba – di cui molti di loro sono stati anche moderatori – e all’Assemblea sinodale decanale un promotore tenace di quell’esercizio di discernimento e di iniziativa di cui c’è bisogno per interpretare il territorio, per immaginare e realizzare proposte che siano fuori dei recinti ecclesiastici a servizio della “Chiesa dalle genti” e del debito del Vangelo verso tutti».
Semmai, «occorrerà domandarsi come portare l’annuncio nelle scuole, nella pluriforme “Chiesa dalle genti”, negli ospedali, con uno stile di evangelizzazione proprio di quanti credono al Vangelo e sono presenti nella realtà quotidiana. Questo tema deve vedere i diaconi come responsabili nell’attivazione dei cristiani nell’ordinarietà». Le parole dell’Arcivescovo si rivolgono, così, direttamente a chi prende parte dall’assemblea. «Dovete chiedervi quale contributo ha dato il Diaconato alla vostra maturità cristiana e umana. Il rapporto tra condizione adulta e Diaconato, come stile di servizio, deve fare e fa maturare anche la vita familiare e professionale come servizio. Questa è una ulteriore grazia».
Altro aspetto arricchente «è la partecipazione alla vita liturgica della comunità. Il diacono prega e può insegnare a pregare, con la promozione necessaria della relazione intraecclesiale, perché la comunione sia evidente. Una grazia per la Chiesa in cammino, in uscita, che evangelizza e una grazia personale per chi è diacono».
I «malesseri»
Non manca anche un accenno agli inevitabili malesseri «di non essere ben identificati o valorizzati». «C’è il rischio di una sorta di autorizzazione al malumore, mentre il malessere dovrebbe configurarsi come una sfida, un’esperienza di annunciazione che invita alla conversione, come fu l’annuncio a Maria che dice la gioia che trova la sua ragione nel Signore e un dono che si sta per ricevere».
Inoltre una seconda annunciazione, dice monsignor Delpini con le prime parole di Gesù nel Vangelo di Marco: «Il tempo è compiuto. Il Regno di Dio è vicino». «Gesù comincia la sua missione nella Galilea delle genti, per cui c’è un percorso di conversione e di adesione al Vangelo. Siate testimoni di questa gioia improbabile, protagonisti di questo annuncio del Regno che viene là dove tutto potrebbe congiurare per uno sconcerto degli ascoltatori. Ma il Signore rende concreto tutto questo con i segni che ci lascia: la carità, il servizio anche fino al martirio, la comunione, essere uniti in mezzo alla comunità». Quello che, appunto, si chiede oggi, come sfida, al Diaconato permanente.
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