Il testo di un canto divenuto popolare nelle celebrazioni liturgiche (E sono solo un uomo; Pierangelo Sequeri) recita: «Accoglierò la vita come un dono». La vita è dono, comunicazione gratuita a noi dell’Essere, perché siamo (solo) uomini; non siamo Dio, che sussiste in se stesso. È una evidenza della ragione, ancor prima che una rivelazione della Parola di Dio e un oggetto della nostra fede, che la vita non ce la siamo procurata noi. Essa ci è data (“donata”) da Dio attraverso la relazione transitiva di una donna e di un uomo che, nell’intima consumazione del loro amore, divengono «una carne sola» (Gn 2, 24). Ed è proprio l’assenza originale di un “progetto umano” sulla persona del nascituro che gli assicura quella qualità di “accolto” come dono, e non di “prodotto” su ordinazione, che è propria del soggetto umano e della sua inerente dignità.
Il rapporto generazionale tra genitori e figlio non si esaurisce nell’atto generativo – né biologicamente, né affettivamente e neppure socialmente -, ma permane nella figura, intenzionalmente esclusiva, della madre e del padre. Le vicende e le circostanze della vita possono far venire meno una o entrambe queste figure che si costituiscono nell’atto della generazione, con il conseguente determinarsi della supplenza da parte di altri soggetti (morte del genitore, abbandono del figlio, sottrazione alla potestà genitoriale, adozione). Ma la natura originalmente diadica-sessuata del dono amoroso della vita («L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie»: un padre e una madre, un uomo e la sua donna; Gn 2,24) non supporta una progettualità triadica o tetradica della filiazione, ancor più se essa implica l’anonimato (formale o per finzione): cosa è più estraneo all’amore di una “relazione anonima”, di un “dono anonimo” (“senza volto”, privo di identità)?
Contro queste evidenze elementari e categorie fondative dell’umana generazione, le crescenti derive antropologiche sul versante dei “nuovi diritti” (tra i quali l’inedito “diritto al figlio” in luogo del “diritto del figlio”) e del salutismo-eugenismo invocano anche nelle Regioni italiane l’introduzione della procreazione medicalmente assistita (PMA) nella forma eterologa, con il ricorso al gamete maschile (banche del seme) o femminile (cessione di ovociti) o a entrambi di provenienza esterna alla coppia di aspiranti genitori. Nonostante la legge 40/2004 lo escluda (art. 4 comma 3), le complesse vicende giurisprudenziali cui essa è andata incontro – di questo comma la sentenza 162/2014 della Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – hanno di fatto aperto la strada all’accesso alla PMA eterologa sia nei centri privati, sia in quelli pubblici. In alcune Regioni, il Sistema sanitario, noncurante di fondamentali reali bisogni e autentici diritti dei cittadini gravemente malati cui vengono sottratte risorse limitate e preziose, si (ap)presta così a sostenere finanziariamente servizi di PMA eterologa.
Al di là della politica del “diritto al figlio per tutti”, della retorica del “dono dei gameti” e della illusoria promessa di sole “nascite di bambini sani”, si apre l’inquietante scenario di un consumismo procreativo che pone al primo posto la “qualità del concepito”, normalizza la transazione commerciale dei gameti umani (deprecabile anche se non monetarizzata) e – ancor più inaccettabile – frammenta le genitorialità e la filiazione in molteplici elementi genetici, gestazionali, affettivi, sociali e giuridici che scompongono la soggettività del figlio, della madre, del padre e della coppia generativa.
Ancora una volta, la categoria antropologica-sociale dell’accoglienza della vita umana (già nata, non ancora nata o da concepire) deve fare i conti con gli “interessi” dei più forti che prevaricano i diritti dei più deboli, accampando giustificazioni che la ragione e la realtà respingono ancor prima che la fede cristiana li riconosca come inaccettabili.