
In pochi conoscono la vicenda dei dieci fratellini adottati da monsignor Piero Rampi. Don Piero – un profondo legame con don Carlo Gnocchi, che lo accompagnò anche nel discernimento della vocazione religiosa – fu direttore e poi presidente dell’Istituto Sacra Famiglia dal 1956 fino al 1988. Una storia eccezionale, raccontata da Il Segno di febbraio, attraverso la testimonianza di uno dei fratelli, Amedeo Sciascia, 73 anni.
In un pomeriggio tiepido di novembre, Sciascia torna al cimitero della Sacra Famiglia, a Cesano Boscone, a rendere omaggio alla tomba di suo padre. Sì, perché monsignor Rampi è stato davvero il suo papà: «Monsignore entrò nella nostra vita e la trasformò – dice, senza tentennamenti -. Prese talmente a cuore le nostre vicende che nel 1966 ottenne dal Tribunale di Torino la tutela di tutti noi dieci, richiamandoci dai vari istituti in cui eravamo ricoverati».
Una scelta che poteva apparire assurda, comprensibilmente contestata, che però monsignor Rampi fece sua con entusiasmo e, forse, agli occhi dei più, con una certa dose di incoscienza. Ma a cui rimase fedele per tutta la vita. «All’inizio fu abbastanza imbarazzante perché ci conoscevamo poco, lo chiamavamo ancora “monsignore” – ricorda Amedeo -. Ma ogni sera lui era presente, con i suoi consigli e la sua immensa pazienza. “Monsignore” divenne per noi semplicemente Piero».
Erano gli anni in cui guidare la Sacra Famiglia non era facile, ma Rampi non faceva mai pesare ai “figli” i suoi problemi lavorativi. Lui e i ragazzi vivevano tutti insieme: l’unica camera con un solo letto era quella di Piero, mentre le altre erano piene di letti a castello. Giorno e notte i bambini erano seguiti da amici-educatori, scelti tra le persone di fiducia di Rampi, che avevano il compito di aiutarli nelle piccole cose della vita quotidiana. «Ma per i crucci, le soddisfazioni o le preoccupazioni più importanti, aspettavamo Piero e la sera, riuniti attorno a lui, ogni cosa sembrava andare al suo posto», racconta ancora Amedeo.
«Negli anni Novanta tra fratelli, mogli, mariti e bambini eravamo quasi quaranta e nessuna delle nostre case riusciva più a contenerci tutti – prosegue Amedeo -. Così, per i fine settimana, si andava in una sua vecchia casa colonica sulle colline dell’Oltrepò pavese. Non c’era niente, se non le stradine acciottolate che spellavano le ginocchia dei bambini, eppure c’era tutto quello che desideravamo quando Piero, dopo aver celebrato la Messa nella chiesetta del paese, si sedeva a capo del tavolone di legno sotto il pergolato».
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