«Che cosa è il dialogo e come renderlo possibile? Come, in un umanesimo condiviso, si identifica il bene comune, quale condizione per realizzare la propria vocazione?». Sono domande, più che risposte, quelle che l’Arcivescovo propone nel suo intervento al convegno «Dialogo sociale, imprese, partecipazione. Progettare il futuro costruendo il bene comune», che si svolge presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore come apertura del percorso diocesano di formazione socio-politica «Dal dialogo sociale all’amor politico». Cammino modulato sui temi della Settimana sociale dei Cattolici in Italia del luglio scorso a Trieste e che si concluderà nel marzo 2025.
«Generatori di Speranza: l’Impresa e il Bene Comune”: questo il cuore della riflessione dell’Arcivescovo, che ha preso la parola anche come presidente dell’Istituto di Studi Superiori Giuseppe Toniolo.
La prorettrice: «Con il dialogo si può cambiare»
Ad avviare i lavori, in rappresentanza della rettrice della Cattolica Elena Beccalli, la prorettrice vicaria Anna Maria Fellegara, che subito nota: «In linea con le buone pratiche, occorre condividere tavoli di lavoro senza rinunciare a ciò che le rispettive parti ritengono giusto. E questo non solo in un ambito puramente economico e contributivo, senza negare la possibilità di vivere il conflitto, ma scoprendo vie di convergenza e azioni comuni. Le relazioni vanno curate e riportate ai fini originari».
La prorettrice prosegue evidenziando il dato di salari medi in Italia rimasti come intrappolati negli ultimi trent’anni: «Una carriera nel mondo imprenditoriale non è solo cosa seria, ma è una scelta nobile, una missione sociale, che deve essere orientata verso il bene comune. Così si realizza una sorta di materialismo aziendale, per cui ogni impresa, perché protesa a tale bene, diventa anch’essa un bene condiviso in vista della realizzazione delle persone. Occorre dare speranza, dire ai giovani che si può cambiare con il dialogo: una missione centrale per un ateneo che si occupa di educazione».
L’utopia della ricerca del Bene comune
Termini, questi, che tornano più volte anche nelle parole dell’Arcivescovo, partito appunto dal concetto di dialogo attivo tra le parti sociali: «Quando parliamo di dialogo tra politici e cittadini, imprese e organizzazioni sindacali, chiediamoci cosa intendiamo. Perché il dialogo può essere un eufemismo, può rimandare al litigio che pure rappresenta un progresso rispetto alla vita selvaggia o alla via delle armi. Il dialogo, perché sia costruttivo, deve contenere l’utopia della ricerca del bene comune: una condivisione valoriale che permetta di confrontarsi nella convinzione che tutti coloro che siedono a un tavolo non desiderano solo la rivendicazione del proprio punto di vista».
Da qui un secondo interrogativo relativo a cosa si intenda per bene comune. «Mi sono fatto la persuasione – osserva monsignor Delpini – che il bene comune è l’essere insieme, l’arte di costruire la convivenza dei molti e dei diversi, permettendo a ciascuno la realizzazione della propria vocazione e della felicità. Il bene comune è quel convivere che favorisce il compimento della vocazione di ognuno. Ma perché questo possa darsi è necessaria una speranza, un obiettivo verso cui camminare, una terra promessa. Naturalmente non si può escludere la visione condivisa del bene comune che sia difesa la dignità di ciascuno, che sia effettiva la libertà, che sia praticata la solidarietà, ma ciò rimane solo retorica se non vi è la speranza. Non è l’impresa, non è la società a generare speranza, che è invece la virtù o l’atteggiamento di chi si affida a una promessa. La promessa è che la vita abbia un compimento felice e non sia destinata al nulla».
La speranza
Chiarissimo il richiamo a una corretta interpretazione della speranza: «La speranza non è una specie di analgesico per limitare la disperazione, ma è la certezza che la fine non è la morte, perché se l’ultima parola è il nulla, ogni cosa perde significato e vale solo la gratificazione del momento. Se lo scopo è che ciascuno realizzi un suo modo in intendere lo stare bene, come il povero si difenderà dal prepotente?». Chi genera speranza, allora? «La speranza non si può generare, si può ricevere, è la promessa che c’è una terra promessa per cui attraversare il deserto, con la persuasione che vale la pena vivere perche la fine non è la morte. Non si genera la speranza, si riceve come visione promettente della vita».
Infine, l’Arcivescovo fa riferimento all’impresa: «Perché si fa impresa? Perché magari è una tradizione di famiglia, per perseguire uno scopo di guadagno e il benessere, perché si è ambiziosi, ma la tesi di questo convegno è che l’impresa sia un fattore del bene comune che unisce tutti: lavoratori, dipendenti, sindacati, amministratori. Questa oggi è una nozione troppo dimenticata. Il tema dell’esasperazione della burocrazia e del controllo è una delle condizioni che ignora che l’azienda deve essere incoraggiata a produrre bene comune. Abbiamo diritto di chiedere alle aziende cosa fanno per il benessere delle persone e dell’ambiente, cosa producono per la sostenibilità del Bene comune; ma a questo fine si può produrre qualunque cosa? Questo è un problema etico molto serio. Per entrare nel merito del dialogo dovremmo forse iniziare dalla fine, passando da un’idea di sostenibilità a quella di responsabilità, cioè del rispondere di ciò che si fa. Partendo dal fine si può giudicare la pertinenza dei mezzi».
L’importanza di un’alleanza collettiva
«La sussidiarietà orizzontale è dove si svolge la personalità delle persone e la nostra Costituzione definisce la primazia del lavoro, dei lavoratori, delle formazioni sociali e del territorio con l’apertura totale a quelle che si chiamavano relazioni industriali, cioè tra sindacati e imprese, lavoratori e imprenditori», nota Antonella Occhino, preside della Facoltà di Economia della Cattolica che centra la sua relazione sugli aspetti giuridici del dialogo sociale.
«Abbiamo oggi imprese industriali, finanziarie, ma con un ingresso forte di quelle digitali: che cosa vuol dire partecipazione dentro l’attività sindacale? Il modello non è conflittuale per definizione, anche se nasce con una peculiarità rivendicativa. Come recita la Costituzione parlando di un modello partecipativo, si pensa a lavoratori che condividono una finalità, con lo scopo di condividere anche la produzione e la governance. Questa è la partecipazione detta “forte”, ma vi è anche una che si definisce “debole”, ossia a livello di informazione dei problemi in corso, con la perdita dei posti di lavoro e conflittualità crescente. È una funzione delicatissima e consultiva, che fa vedere nuove luci, che magari l’imprenditore non vede – scandisce la Preside -. Non è una partecipazione debole, ma utile e per questo va ampliata come una sorta di film continuo, uno stile, non solo in occasione di un licenziamento collettivo o della chiusura dell’azienda. Il dialogo non è mai a puntate, ma ha uno stile quotidiano e a fare sintesi non deve essere la direzione del personale, ma un contropotere collettivo in un’alleanza che diviene strategica».
Poi il convegno è proseguito con la tavola rotonda «Esperienze e Prospettive di Partecipazione», moderata da don Nazario Costante, responsabile del Servizio diocesano per la pastorale Sociale e del Lavoro e incaricato regionale della Conferenza episcopale lombarda per la Pastorale sociale.