Tra gli effetti più vistosi di questi lunghi mesi di pandemia va menzionata l’improvvisa comparsa nel nostro orizzonte quotidiano di quel vecchio augusto edificio che è la scuola. Eravamo talmente abituati a sapere della sua presenza, talmente certi che fosse sempre lì, da non vederlo neanche più. Come la strada che si percorre ogni mattina, anche la scuola si segnalava soltanto in occasione di qualche nuovo buco o di una mano di vernice arrivata a ringiovanire una facciata. Per il resto la scuola poteva essere ignorata, dando per scontato che facesse il suo lavoro. Un lavoro a suo modo importante, ma – per così dire – quasi automatico. I genitori vi accompagnavano i propri figli ancora piccoli e aspettavano poi che uscissero, ormai alle soglie dell’età adulta. Se si eccettua qualche piccolo incidente di percorso e la necessità, nelle svolte decisive, di scegliere la direzione giusta, si poteva dire che le cose andassero per proprio conto.
La pandemia ha costretto tutti ad accorgersi della scuola. Ce ne siamo ricordati nel momento in cui l’abbiamo vista messa a repentaglio, come quei beni che si chiamano di prima necessità e che però scopriamo quanto ci sono davvero necessari solo nel momento in cui vengono a mancare. La scuola, che era invisibile perché scontata, a un certo punto ha rischiato di scomparire davvero.
Se non è scomparsa lo dobbiamo a tutti quegli insegnanti che per mesi le hanno dato consistenza facendo i salti mortali perché in un modo o nell’altro fosse possibile fare lezione. L’edificio scuola è riapparso nelle nostre strade in modo un po’ spettrale, come un relitto che ha reso esplicita l’assenza di qualcosa che non pensavamo potesse venire a mancare. Ma la scuola, quella vera, è diventata più visibile che mai, entrando nelle case di tutti, materializzandosi nelle camerette, nelle cucine e nelle altre improbabili postazioni che ciascuno ha saputo rimediare.
Nulla per cui esultare, s’intende. Ma non può passare inosservato lo sforzo quasi sovrumano di tanti docenti che, con una dedizione e un’inventiva commoventi, hanno letteralmente dato corpo alla scuola. Non solo nella didattica digitale, ma anche nel periodo estivo di riorganizzazione degli edifici, di spostamento di banchi e di orari. Poi di nuovo a settembre, misurando temperature e distanze, accettando compromessi, adattandosi ogni volta alle nuove normative, con alunni in quarantena e altri in classe, con bambini da coinvolgere, ma senza poterli avvicinare, con ragazzi smarriti a cui pazientemente ridare la fiducia e il gusto di uscire dalla propria tana.
Per tanti, anche per gli stessi genitori, la scuola è diventata più che mai un punto di riferimento, l’istituzione a cui rivolgersi, l’àncora a cui aggrapparsi. Non la scuola, a dire il vero, ma gli insegnanti, le maestre, i presidi, i professori: le stesse persone che, anche in passato, hanno tenuto in piedi le nostre scuole e che, quest’anno, come sempre, non hanno esitato a rimboccarsi le maniche e a fare tutto il necessario.
La luce dell’incarnazione ha a che fare con questa disponibilità a mettersi in gioco, anima e corpo, per dare corpo al bene: difficile non pensarci, avvicinandosi il Natale. Da parte nostra, allora, vorremmo almeno in minima parte ricambiare offrendo a chi ha tanto lavorato un breve momento di tregua, un piccolo tempo in cui tirare il fiato: una parola di sapienza, la bellezza dell’arte e della musica. Non per evadere dalla realtà, ma per comprenderla meglio, per coglierne il bene. Perché a dispetto di tutto, e anche senza le luminarie abituali, una Luce rischiara le ombre del nostro presente.