La decisione, ponderata e sofferta, dei Vescovi di alcune diocesi italiane dove è elevato il rischio di una espansione del contagio infettivo attorno ai focolai epidemici di COVID-19, di sospendere nelle chiese la celebrazione dell’Eucaristia «con il concorso di popolo» (resta aperta, ed è raccomandabile, la celebrazione o concelebrazione «in forma privata») nasce da una carità pastorale verso i fedeli e una saggezza nell’esercizio del governo della Chiesa locale, e dal senso di responsabilità civile nei confronti delle comunità la cui salute – un bene fondamentale della persona – è esposta al rischio di una malattia trasmissibile attraverso la vicinanza stretta e il contatto fisico o per inalazione di aerosol.
Quando i rischi connessi all’infezione – come appare nel caso del betacoronavirus SARS-CoV-2 da quanto emerge dai dati clinici ed epidemiologici attualmente disponibili – riguardano in maggior misura alcune fasce della popolazione più vulnerabili, quali gli anziani, i già affetti da altre patologie croniche o debilitanti e i soggetti con una compromissione parziale della funzionalità respiratoria o un deficit immunitario (per esempio, i pazienti con immunodeficienze primitive, quelli oncologici in trattamento chemioterapico o i trapiantati sottoposti a terapia immunosoppressiva), la carità pastorale prende la forma squisitamente evangelica della prossimità a chi è più debole, fragile e indifeso di fronte a una possibile minaccia per la sua vita.
Senza nulla togliere né sminuire della centralità dell’Eucaristia nella vita spirituale dei credenti e del lodevole desiderio dei fedeli di poter partecipare alla Messa almeno alla domenica, e di comunicarsi sacramentalmente al Corpo di Cristo (pur non dimenticando il valore autentico di un “atto di Comunione spirituale”, qualora ciò non sia possibile), l’indicazione dell’ordinario diocesano di sospendere pro tempore la celebrazione pubblica delle Messe – chiedendo ai laici il “sacrificio del digiuno eucaristico” – non solo risulta conforme ai poteri in materia di disciplina dei riti liturgici e amministrazione dei sacramenti che il Codice di diritto canonico assegna ai vescovi diocesani, ma appare ispirata a una considerazione realistica e pienamente ragionevole del bene della persona nella sua inscindibile unità di corpo e anima (cfr Concilio Vaticano II, Gaudium et spes 14). Il bene dell’anima non può essere considerato a prescindere dal bene del corpo: come mostra eminentemente l’azione taumaturgica di Gesù documentata nei Vangeli, segno del manifestarsi del Regno di Dio, la salus animarum è intimamente legata alla salus corporis, e la Chiesa è chiamata a prendersi cura della seconda mentre è al servizio ministeriale della prima.
Ed è proprio la storia delle Chiese locali a offrire esempi di una carità pastorale che si è chinata amorevolmente sulla sofferenza dei fedeli in tempi di contagio epidemiologico da malattie gravi che ha colpito alcune popolazioni italiane nei secoli passati. Nella stessa Lombardia, oggi interessata dalla sindrome respiratoria COVID-19, ritroviamo la vicenda del vescovo di Pavia, il venerabile Angelo Ramazzotti che resse la diocesi dal 1850 al 1858, e del suo predecessore Luigi Tosi, i quali dovettero affrontare rispettivamente le epidemie di colera che colpirono il territorio lombardo negli anni 1854-1855 e 1835-1837. Diversi furono i provvedimenti presi dai due vescovi, certi che «la prudenza cristiana […] ci consigli ad adoperare quelle misure di pulitezza e di igiene che anche dalla vigile autorità [civile] vennero prescritte» (A. Ramazzotti).
Le indicazioni e le dispense dagli obblighi riguardanti il clero e i fedeli avevano per oggetto anche l’amministrazione e il ricevimento dei sacramenti e le celebrazioni liturgiche, evidenziando la necessità che i sacerdoti in cura d’anime non prendano iniziative estemporanee: «è importantissimo alla salute pubblica e al buon ordine che sia da tutti i RR. Parochi tenuto un prudente metodo uniforme» rispetto a quanto stabilito dal vescovo in ragione del bene comune (A. Tosi). Senza dimenticare di rivolgersi ai datori di lavoro (allora «i proprietari di fabbriche e manifatture, i padroni di botteghe, i fittabili») per ricordare loro il dovere di non lasciar mancare lo stipendio con regolarità anche a chi deve restare a casa a motivo dell’infezione, così che la fasce più economicamente deboli della popolazione non soffrano ulteriormente a causa dell’epidemia.
Insieme alla preghiera perché il Signore misericordioso liberi presto il nostro Paese e il mondo da questa nuova minaccia per la salute dell’uomo, la Chiesa italiana vive una solidarietà sociale e una dedizione pastorale semplice ed efficace per contribuire con le autorità civili, gli operatori sanitari e tutti i cittadini ad affrontare secondo scienza e coscienza questa emergenza, con lo sguardo attento al bene comune.