Questa volta sarà la fede a salire in cattedra… non nel senso che abbia qualcosa da imporre necessariamente agli altri. Che lo sguardo della fede sia per sé “totalizzante” risulta evidente dalla pretesa delle religioni di volere descrivere in modo sistematico il senso dell’esistenza e della realtà tutta. E, però, se si intende evitare il concreto rischio di una deriva “totalitaristica” occorre assumere la dimensione del dialogo, per stanare i demoni della prevaricazione ed edificare la società plurale.
Il fatto che il Rabbino capo e l’Arcivescovo di Milano si incontrino, dovrebbe essere salutato come una good news per tutta la città. Di questo, infatti, si tratta: di un esercizio “civile”, oltre che di un evento spirituale. E che questo avvenga – giovedì 6 maggio, alle 16.30, su iniziativa del Vicariato per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale – in un luogo non neutro, ma carico di senso come l’Università Statale, pare ancora più significativo; peraltro, in un tempo nel quale i legami sociali sono a rischio o come minimo si sono allentati.
Ma la fede ha anche i suoi dubbi: e questo non è irrilevante, soprattutto nella situazione presente, nella quale la pandemia ha fatto prendere coscienza, con violenza inattesa, del limite e della fragilità umana; oltre che di un paradosso: quello di una civiltà che ha creato le premesse della sua stessa disfatta.
Della tradizione scritturistica, condivisa tra ebrei e cristiani, non c’è testo, forse, più adeguato del libro di Giobbe per dar voce a tali dilemmi: «Come può un uomo aver ragione dinanzi a Dio?» (Gb 9,2), si chiede il protagonista, annichilito dal peso di una sofferenza inaudita, che egli sente non solo sproporzionata per chiunque, ma capace di squalificare, in partenza, ogni tentativo di interlocuzione con Dio. In realtà, il testo ebraico suona in modo differente, ma anche questo sarà interessante materia di discussione.
Riflettere intorno alle “ragioni” della fede, proprio quando di ragione non si ha traccia: ciò è parte di quel mistero della sofferenza innocente che ci viene espresso con forza da Giobbe, il quale, non essendo figlio di Israele, ma discendente da una non meglio precisata nazione, è emblema dell’umanità intera.
Ma siamo sicuri, poi, che possa esserci una sofferenza “innocente”? È un dubbio legittimo, cui gli stessi amici di Giobbe danno voce e al quale non possiamo sottrarci… Certo, alla fine della vicenda essi saranno umiliati, a favore di chi avevano in precedenza accusato; al quale, comunque, non saranno risparmiate parole di rimprovero! In realtà, non è proprio l’essere umano a mettersi con le sue stesse mani, con le sue azioni sciagurate nelle condizioni di patire? E l’errore di uno non va forse ad influire sugli altri? Non è tutto ciò ancora più vero ai tempi della globalizzazione?
Il libro di Giobbe, pur chiudendosi con un hapyy ending, non permette di scansare definitivamente e facilmente tali interrogativi. Mentre ci illumina sulle vie della Sapienza, al di fuori dei confini di Israele e della Chiesa, esso non solo raffigura ma costituisce in se stesso una “prova”: anzitutto da un punto di vista linguistico e interpretativo; e, quindi, anche spirituale. Proprio, nel momento in cui i cattolici, sulla scia della lettera di Giacomo, hanno scelto di sciogliere, relativamente alla recitazione della preghiera del Padre Nostro, ogni dubbio circa il fatto che Dio possa «indurre in tentazione», la vicenda di Giobbe continua ad opporre resistenza contro ogni soluzione che sia troppo unilaterale. Ma anche questo dovrà essere sottoposto, senza preclusioni, alla “prova” del dialogo.