Se il problema non è solo quello delle fake news, della rete o dei social, della mancanza di formazione, ma è anche dei comunicatori, è evidente che il problema esista e sia serio, anche per chi di informazione vive, per chi la produce, per chi aspira, pur non professionista, a creare notizie.E, allora, «per andare oltre i luoghi comuni e le scuse, occorre tornare a riflettere sulla questione delle questioni: quella educativa».
È il richiamo con cui si apre il penultimo incontro del Ciclo “La parrocchia comunica con i social media” che, organizzato dall’Ufficio Comunicazioni Sociali dell’Arcidiocesi di Milano e da Aiart Lombardia in collaborazione con Ucsi Lombardia, presso l’Università Cattolica vede, tra i relatori, l’Arcivescovo, e riunite oltre 500 persone, tra cui 170 frequentanti il Corso.
Il tema, “Social media e video, l’impatto sulle nuove generazioni e l’educazione a una corretta fruizione” interessa, intercetta domande e chiede risposte, come suggerisce, nel saluto introduttivo, monsignor Davide Milani, responsabile della Comunicazione della Diocesi e presidente dell’Ente dello Spettacolo.
Prende brevemente la parola anche il vicepresidente per l’Ucsi Lombardia, Edoardo Caprino che dice: «L’Unione Cattolica della Stampa Italiana vuole essere una testimonianza cristiana nel mondo dell’informazione, non solo per i giornalisti, ma per tutti i comunicatori».
Infatti, chi fosse interessato, può scrivere a ucsilombardia@gmail.com per ricevere il mensile nazionale dell’Associazione, “Desk” e mantenere il contatto con questo ponte tra Chiesa e mass media.
Si entra poi, subito, nel merito di una possibile e corretta, fruizione dei social, con la relazione di Stefania Garassini, presidente dell’Aiart Milano e docente in “Cattolica” di Editoria multimediale.
«I nativi digitali sono i ragazzi venuti al mondo in una realtà in cui era già presente la nuova tecnologia: a loro, si contrappongono i cosiddetti immigrati digitali, gli adulti che hanno solo visto arrivare i nuovi strumenti», spiega, aggiungendo. «Oggi, tra ragazzi e adulti, usiamo spesso gli stessi social, ma modo diverso, o utilizziamo mezzi davvero diversi».
Pur nelle differenze, bisogna, però, sfatare il mito secondo il quale, comunque, i giovani sono necessariamente esperti. «Questo vuol dire che, di fronte alle stesse sfide che coinvolgono tutti, noi adulti abbiamo un bagaglio, le risorse necessarie per capire, ad esempio, che i mezzi di comunicazione non sono neutri o che il tempo passato su internet non è sempre uguale».
Da qui occorre, per Garassini, ripartire: «dal realismo, dalla consapevolezza dei mezzi e dalle nostre fragilità, creando strumenti che aiutino in un ruolo critico e di giudizio».
Il riferimento è alle campagne di advocacy – promosse specie negli Stati Uniti –, che si possono tradurre come azioni di pressione sugli operatori del settore, come i genitori che hanno scritto a Mark Zuckerberg (l’inventore di Facebook) per eliminare dal mercato messenger kids, servizio di messaggistica per i bambini, o semplicemente come il parroco delle nostre terre che, in predica, ha chiesto ai genitori di non regalare lo smartphone ai ragazzi per la comunione. Come a dire, con una famosa frase anche di papa Francesco, “Per educare un figlio ci vuole un villaggio”.
Da qui avvia la sua comunicazione monsignor Delpini. «Con questo Corso vorremmo preparare persone che, nella loro comunità o parrocchia, siano operatori della comunicazione. L’espressione “la parrocchia comunica” è provocatoria, perché non dice solo che essa è in grado di diffondere avvisi o comporre un Bollettino, ma significa che la parrocchia stessa è un segno, perché esiste ed è presente nel territorio».
Eppure, qualche volta questa presenza, seppure nevralgica, al cuore della vita, appare residuale, annoia: «la gente pur vedendo la Chiesa, pensa che non sia utile frequentarla, che sia un negozio che ha qualcosa da vendere e segnala solo i servizi che offre».
Il rischio, suggerisce Delpini, «è che la comunicazione appaia finalizzata alla promozione di un prodotto. Invece, si vive una comunità non perché esistono dei servizi, dei pacchi-viveri, ma perché è bello farne parte. La parrocchia comunica nel modo con cui esiste. Preparare a ciò le persone significa dare loro questa consapevolezza e la responsabilità di fare in modo che la parrocchia sia un messaggio coerente con la sua missione».
Insomma, un «incoraggiamento», come lo definisce il vescovo Mario, «per non vendere un prodotto, per non ripetere parole logore, ma per dare un’immagine vera, autenticamente cristiana, di profezia, consolazione e convocazione».
In un tale contesto, i social sono un’agorà da cui non essere assenti o evadere, rappresentando una sfida grande per i rischi che comportano «tra cui quello, particolarmente insidioso, di rendere, promuovendo l’individualismo, la persona più manipolabile, più facilmente trasformabile in un cliente».
Per questo la responsabilità educativa dei comunicatori, a ogni livello, e come adulti è altrettanto grande e si delinea in quelle tre parole – o meglio, «tre punti pertinenti» – , con cui l’Arcivescovo conclude il suo intervento.
«Prima di tutto il “villaggio”, la comunità che, educando, può aiutare nell’uso corretto dei mezzi a realizzare buone prassi, introducendo criteri per dire ciò che è bene e ciò che è male. L’educazione è più della formazione, ha sempre a che fare con la libertà di persone libere che possono, magari, rifiutare il nostro impegno. Dobbiamo coltivare la fiducia (anche se, talvolta, si è frustrati dai risultati) sapendo che ognuno è attratto dalla casa del Padre, e trasmettere il significato della vita, mettendo nel conto il fallimento. Un secondo aspetto sono le regole, necessarie, come in tutti gli altri ambiti; e, infine, l’elaborazione di una strategia di resistenza al male di fronte a realtà rovinose». Interessante, ad esempio, l’iniziativa dell’istituto “Toniolo” intitolata “Parole Ostili”, per sensibilizzare i giovani ad un uso consapevole dei termini e dei mezzi.