La città immensa, confusa, problematica, la grande città, la Ninive biblica e del terzo millennio, dalla quale qualcuno scappa, in cui altri si nascondono silenziosi, che altri ancora vorrebbero semplicemente distruggere, senza nemmeno chiedersi cosa ne sarà di tanta rovina. Eppure, è questa la città – che tutti conosciamo bene – dove, se si vuole annunciare il Vangelo e se si è mandati, occorre andare, contagiando a fare lo stesso, perché il mondo creda, come recita il motto dei Candidati al Diaconato 2019. 23 giovani uomini, di età compresa tra i 23 e i 37 anni che, compiendo il loro percorso seminaristico di formazione e studio, diventeranno i nuovi preti ambrosiani, in Duomo, il 13 giugno 2020, nella Cattedrale dove, appunto per l’imposizione delle mani e la preghiera dell’Arcivescovo, vengono ordinati Diaconi. A loro si aggiungono 5 seminaristi – 3 provengono, rispettivamente, da Filippine, India e Thailandia – appartenenti al Pontificio Istituto delle Missioni Estere.
Nel Duomo gremito da parenti, amici, fedeli delle parrocchie e comunità di nascita e di destinazione degli Ordinandi, concelebrano i Vescovi ausiliari, qualche Vescovo emerito, i membri del Consiglio Episcopale Milanese, i Superiori ed Educatori del Seminario con il rettore, monsignor Michele Di Tolve, i Canonici del Capitolo della Cattedrale, con l’arciprete, monsignor Gianantonio Borgonovo e il superiore generale del Pime, padre Ferruccio Brambillasca. Non mancano i molti giovani che frequentano gli altri anni di preparazione al sacerdozio.
La parola – «questa Parola è rivolta a tutti» – scandisce il vescovo Mario, in riferimento soprattutto alla prima Lettura tratta dal terzo capitolo del profeta Giona – dopo la presentazione ed elezione dei Candidati con il loro “Eccomi”.
L’omelia dell’Arcivescovo
«La parola è rivolta a tutti coloro che cercano di sfuggire alla missione che è stata loro affidata perché sono allergici ai sentimenti di Dio che ha compassione di tutti e che vuole salvare tutti; i profeti malavoglia, quelli del malumore preferiscono sottrarsi alla missione perché, invece della conversione, vorrebbero un castigo esemplare, invece di una storia nuova, vorrebbero una catastrofe che mandi alla malora tutti i peccatori; i profeti del risentimento sono quelli che si arrabbiano per quello che li disturba, ma restano indifferenti alla rovina di una città».
E, poi, ci sono quelli che hanno paura e a cui, comunque, si rivolge la parola: «paura della città immensa e della sua confusione, perché là non si distingue la destra dalla sinistra, il bene dal male e, perciò, chi chiama a conversione è destinato a risultare antipatico; la parola è rivolta contro i profeti che, a proposito della missione a Ninive, pensano di non essere adatti, di non essere capaci, di non avere tempo; è rivolta a coloro che, piuttosto che chiamare a conversione la città, la attraversano zittiti dalla loro timidezza, confusi nei loro pensieri, più portati a omologarsi allo stile degli altri che lucidi nell’indicare la possibilità di salvezza e la via per conseguirla. Profeti timidi che vorrebbero non farsi notare, passare inosservati, perché si trovano bene tra le mura della comunità degli uguali, ma a disagio nella città immensa».
Al contrario, chi si presenta all’Ordinazione deve accogliere l’invito di andare a Ninive – leggi le nostre caotiche metropoli e, magari, anche le periferie esistenziali di paesi spopolati – per la loro disponibilità alla vocazione e alla missione.
«Io conto su questi nostri fratelli perché l’invito alla conversione continui a essere offerto alla grande città come una speranza, una proposta di vita buona, come un segno che il Regno di Dio è vicino e che, perciò, è possibile convertirsi e credere al Vangelo ed è desiderabile trovare un percorso che avvicini a Dio».
«Io contro su voi, candidati al Diaconato e al Presbiterato, perché il mondo creda, perché andiate là dove siete mandati, fosse pure nella grande confusione e nella città che vi considera antipatici», scandisce l’Arcivescovo, rivolto direttamente ai seminaristi, ma allargando lo sguardo, idealmente, a tutti coloro che si affollano tra le navate. «Forse qualcuno è qui solo per amicizia, simpatia, riconoscenza ma può accadere anche che, come spettatore, qualcuno avverta inaspettatamente la parola che lo invia a Ninive. A voi vorrei dire di non aver paura, di non essere di malumore nei confronti di Dio, perché è troppo buono e paziente, di non essere troppo meschini, più preoccupati della vicenda della pianta di ricino, che del destino della grande città. Se siete inviati a Ninive, partecipate anche voi al desiderio di Dio di salvare tutti, partecipate alle intenzioni dei Candidati di dedicare la vita perché il mondo creda».
Il pensiero va anche – richiamando la seconda Lettura, tratta dalla Lettera agli Efesini -, ai discepoli temerari «che partono faciloni piuttosto che preparati per la missione».
«Sono quelli che hanno una tale confidenza nelle proprie risorse e nelle proprie esperienze che sono persuasi di essere all’altezza della missione e di essere predestinati al successo». Quelli che, se raccolgono qualche successo, pensano di poter fare e affrontare tutto ma che, di fronte alle inevitabili delusioni, critiche e fatiche della vita, ritengono subito che la missione non faccia per loro.
Evidente l’attualità del monito: «Non vi prometto una vita facile, che vi accolgano con entusiasmo e simpatia, vi prometto solo che il Signore sarà sempre con voi, ma dovete essere pronti contro le insidie. Perciò serve lo scudo, serve l’elmo della fede, serve la spada, cioè lo Spirito che è la parola di Dio. Il discepolo per evitare di essere un temerario, deve coltivare una fede tenace che è la relazione personale con Gesù, e non solo un’ingenua presunzione; deve armarsi della parola di Dio, non di chiacchiere o dell’esibizionismo di arti persuasive».
La riconoscenza è per chi ha preparato questi giovani, nella consapevolezza che «siamo solo all’inizio». «Dovete continuare a coltivare la fede, cioè un rapporto intenso, personale, illuminato da una visione del vita dell’uomo e del senso della storia del mondo. Coltivate la fede, perché è la fede che vince il mondo, mentre voi, discepoli, siete forse destinati alla sconfitta, al disprezzo, all’insignificanza: prendete, dunque, l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo.
Ricordatevi che non siete voi che dovete parlare e non è su di voi che dovete richiamare l’attenzione. Siate piuttosto perseveranti nell’ascolto della parola, perché sia lampada per i vostri passi e non vi lasciate prendere dalla tentazione di inventare un vangelo più attuale, di presentare una immagine di Dio più congeniale alle aspettative del nostro tempo. Siete mandati, perciò non scappate dall’altra parte. La vostra destinazione è là dove gli uomini rischiano di perdersi».
Da qui la consegna: «La città immensa e confusa, la città problematica e distratta, la città delle feste e degli affari, la città malata di vecchiaia e di solitudine, ha bisogno di profeti che si facciano avanti per la missione. Preparatevi. Fatevi avanti, quindi, voi che siete tentati da malavoglia e da timidezza. Andiamo insieme perché il mondo creda».
Poi, i gesti della Liturgia dell’Ordinazione diaconale, il “Sì, lo voglio, Sì lo prometto”, per gli impegni degli Eletti, le Litanie dei Santi, l’Imposizione delle mani nel silenzio della Cattedrale, la vestizione degli abiti diaconali, la preghiera di Ordinazione e la consegna del libro dei Vangeli.
E, prima dell’applauso che suggella la gioia all’interno della Cattedrale – all’esterno dopo poco esplode la festa con striscioni e il tradizionale lancio in aria degli ormai Diaconi -, ancora qualche indicazione, con una velata raccomandazione a non essere troppo legati all’esteriorità, magari dei paramenti liturgici. «Non dedicate più tempo all’indossare le vesti che alla preparazione dei Sacri misteri. Raccomando la necessità di trasmettere e contagiare all’annuncio del Vangelo. Esiste la gioia interiore della missione che dobbiamo condividere, anche se essendo stato, in questi giorni, dalle parti di Ninive (il Vescovo ha compiuto dal 23 al 26 settembre un viaggio nella martoriata Siria) ho visto come non vi sia più nemmeno l’albero di ricino. Il Ministero che ci aspetta non è che abbia tanti luoghi di riparo e di conforto».