«Cresce lungo il cammino il suo vigore» è il titolo della Lettera pastorale che monsignor Mario Delpini indirizza alla Diocesi inaugurando l’8 settembre in Duomo il nuovo anno pastorale. La metafora del pellegrinaggio fa da filo conduttore del testo: per questo l’Arcivescovo stesso si definisce «compagno di viaggio di tutta la comunità diocesana». «Questa immagine del pellegrinaggio, che viene ad accarezzare il cuore di tutti i battezzati, è quella di una Chiesa ambrosiana che si ritrova popolo pellegrinante – commenta don Mario Antonelli, Vicario episcopale per l’Educazione e la celebrazione della fede – e il senso di questo cammino è rafforzato da una meta che ci attende e al tempo stesso ci attrae. Per noi è la Gerusalemme nuova, la Città santa, cioè la comunione definitiva e piena con il Signore Gesù».
Delpini parla di una Chiesa non ripiegata, ma capace di prendere il largo con «il vento amico dello Spirito». Quali sono le sfide di oggi per la nostra Chiesa?
Una sfida è quella tipica di ogni cammino: procedere con lo sguardo che contempla la bellezza, lo splendore di Gesù e, al tempo stesso, con i piedi per terra. Quindi mettendo in conto di dover affrontare anche le pesantezze, le fatiche, le precarietà, le fragilità, le indolenze, anche i peccati, che marcano il cammino del popolo di Dio, senza che tutto questo diventi occasione per un lamento sterile e inconcludente. Piuttosto sia luogo di quella gioia del Vangelo di un popolo che nella sua miseria si sente preceduto, ma anche sempre rinnovato dalla misericordia del Signore che continua a chiamare.
E un’altra sfida?
È la capacità rinnovata, anche entusiastica, di attraversare il deserto o, come dice il Salmo 84, «attraversare la valle del pianto» trasfigurandola in una sorgente, ammantandola di benedizioni. La valle del pianto è la città dell’uomo di oggi con le sue mille solitudini e le sue paure, che diventano ossessioni dello straniero, del povero, dell’altro in genere… La sfida, allora, diventa l’appello del Signore a essere popolo di Dio che sperimenta a favore di questa società e provoca attraverso forme di prossimità, solidarietà, buon vicinato. Sono forme di vita nuova che noi raccomandiamo come praticabili per il mondo in cui viviamo.
L’Arcivescovo pone anche l’accento sulla Parola di Dio e sulla preghiera…
Sì. È in questo senso che va letta la scansione della Lettera: in effetti richiama la Chiesa ambrosiana tutta ad ascoltare la Parola, in particolare la Sacra Scrittura, così che questa diventi la lampada per i passi del popolo di Dio, per non camminare o addirittura correre invano (direbbe San Paolo) perché viene trascurata. Il popolo di Dio qualche volta cammina con i piedi stanchi, altre volte addirittura danzando e correndo, ma cammina pregando, lasciando che i passi siano scanditi dalla preghiera di gratitudine.
Nella Lettera c’è anche un appello ai cristiani a essere presenti nella società e nella politica per «tessere alleanze». In un contesto come quello di oggi, spesso conflittuale e aggressivo, il credente può fare molto per cambiare il clima?
Sì. Io credo almeno in due direzioni, che sono accennate nella stessa Lettera pastorale. Anzitutto riconoscendo, in questa responsabilità dei cristiani, il primato di una logica nuova, quella appunto della prossimità e della solidarietà vissute in quanto comunità di fratelli e sorelle. E questo è decisivo. È l’intuizione che campeggia all’inizio della Lettera dove si dice che non c’è Chiesa in cammino verso Dio se non là dove ciascuno cammina verso l’altro. È la formidabile sfida che ci viene consegnata dal Sinodo minore “Chiesa dalle genti”, perché significa che ci riconosciamo. È una novità che ci viene affidata dalle svolte epocali, come quella del grande fenomeno migratorio. La Chiesa ambrosiana si ritrova popolo di Dio in cammino in quanto, in se stessa, ogni gruppo etnico cammina verso gli altri, offrendo i tesori preziosi che lo Spirito di Dio dona a ciascuno: poi ogni etnia vive la propria fede secondo certi accenti e tonalità. Allora si apre una seconda sfida…
Quale?
Quella di un’assunzione di responsabilità per il bene comune. Là dove il popolo di Dio cammina così e apprende al suo interno, nelle relazioni fraterne, l’arte dell’unità, della solidarietà, del farsi prossimo, vedrà sorgere certamente vocazioni a un impegno a favore del bene comune, a livello sociale, culturale, politico… Ognuno secondo la sua competenza e la sua professione, con la capacità di creare vincoli favorevoli per tutti. Sempre con l’opzione preferenziale – che contraddistingue il popolo di Dio – per i piccoli, i poveri, gli emarginati, che papa Francesco chiama gli «scartati».
A partire dalla Commissione per la promozione del bene comune, l’Arcivescovo invita a leggere i segni dei tempi quando dice di «creare nelle comunità cristiane luoghi di confronto, di elaborazione di proposte e di giudizi sulle vicende del nostro tempo e della nostra terra». Si tratta quindi di avere uno sguardo diverso sul mondo?
Parlando di sguardo e di lettura dei segni dei tempi, l’invito che trapela da questa Lettera pastorale va in una duplice direzione. Da un lato il popolo di Dio è chiamato, ma deve anche essere aiutato in questo, a leggere in profondità, a maturare un’intelligenza della realtà, intelligenza che oggi è carente, molto deficitaria. È un’intelligenza che spetterebbe, forse in primo luogo, a chi gestisce la cosa pubblica, amministra un Paese e le istituzioni; tuttavia vediamo che spesso si procede non a partire da un’intelligenza del dato dei grandi fenomeni nella loro complessità, ma per slogan, anche inefficaci. Invece di creare vita nuova e degna per tutti gli uomini, si crea quell’inferno che è la contrapposizione vicendevole, l’isolamento, la divisione, la lacerazione della compagine sociale.
E la seconda direzione?
La lettura del dato non può essere “strabica”. Siamo spesso concentrati, anche come comunità cristiana, su aspetti parziali di una realtà che invece è molto più vasta. Spesso ci attrae, ma al tempo stesso ci offusca la vista, un problema che ci tocca da vicino e tocca anche le corde dell’emozione, poi però non ci accorgiamo che soltanto a qualche centinaia di chilometri più in là o più a sud del mondo, ci sono vicende di fragilità, degrado, stragi e crudeltà, che dovrebbero far rabbrividire, muovere al pianto, alla compassione, alla carità intelligente il popolo di Dio. Qualche volta, però, l’enfasi che una certa comunicazione mediatica impone su alcuni aspetti della realtà contemporanea porta le stesse comunità cristiane a non intravedere più il quadro complessivo della realtà, con tutta la sua bellezza e la sua miseria impegnativa e sfidante per le comunità stesse.