Papa Francesco ha più volte affermato che stiamo vivendo «una terza guerra mondiale a pezzi». L’invasione russa dell’Ucraina, la guerra tra Israele e Palestina e i tanti conflitti dimenticati sembrano indebolire il desiderio di pace, lasciando il futuro di milioni di persone in balia delle logiche di potere e di sopraffazione.
Ma se la pace non può essere soltanto l’assenza di guerra, allora è necessario costruire solide basi perché in futuro i semi dell’odio non possano più germogliare. Su questo tema vuol riflettere il convegno Mondialità 2024 di sabato 10 febbraio a Milano, sul tema «Facciamo la pace? Da desiderio di tutti a possibilità di ciascuno». Organizzato presso la sede della Caritas Ambrosiana in via San Bernardino 4, l’incontro si aprirà alle 9.30 con un intervento dell’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini.
Tra i relatori che prenderanno la parola sarà presente Giulia Ceccutti, membro del consiglio direttivo dell’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom – Wahat Al-Salam. La sua esperienza è quella di una piccola realtà a circa 60 chilometri da Gerusalemme che mostra come la convivenza pacifica tra ebrei e palestinesi sia possibile.
Un’oasi unica
«Il nome ebraico e arabo Nevé Shalom – Wahat Al-Salam significa “oasi di pace” e riprende un versetto del profeta Isaia: “Il mio popolo abiterà in un’oasi di pace” – spiega Ceccutti -. Si tratta dell’unica comunità presente oggi in Israele con famiglie ebree e palestinesi, tutte con cittadinanza israeliana, che hanno scelto di abitare insieme in un regime di piena parità, democrazia e rispetto dei diritti di tutti».
Il villaggio fu fondato nel 1972 dal padre domenicano Bruno Hussar per trovare il modo di trasmettere il significato del dialogo ai popoli della Terrasanta come unica via per garantire un futuro. Una delle frasi che ha lasciato diceva: «Anche la pace è un’arte che non si improvvisa, ma può essere insegnata». Ad oggi sono ospitate 80 famiglie per un totale di 300 residenti.
«Il villaggio è una realtà piccola. I residenti ne sono consapevoli, ma sanno che è un simbolo potente di qualcosa che potrebbe esserci in quella terra – racconta -. Queste famiglie hanno voluto che i propri figli non crescessero in un Paese dove le due comunità sono completamente separate e indifferenti l’una all’altra, ma invece si mettessero in ascolto delle reciproche storie ed identità».
Insieme fin dalla scuola
L’incontro è incoraggiato fin dall’istruzione primaria, con classi miste dove si parla ebraico e arabo, si racconta la storia dei due popoli e si rispettano le festività religiose di tutti. All’interno della comunità è attiva anche «una scuola per la pace che lavora con gruppi di giovani adulti tenendo corsi e sessioni di dialogo sul ruolo che le persone giocano all’interno del conflitto israelo-palestinese».
Dialogo in pericolo?
Alla domanda se la guerra in corso abbia minacciato il dialogo nel villaggio, Ceccutti afferma che questo è «un momento estremamente difficile per i residenti perché hanno avuto e continuano ad avere lutti. Una parte degli abitanti ebrei ne ha avuti a causa degli attacchi di Hamas del 7 ottobre, mentre i membri palestinesi della comunità vivono tutto il dramma che si sta consumando a Gaza. C’è un lutto che attraversa entrambe le parti, ma è condiviso».
Da questo dolore gli abitanti sono però riusciti a trovare la forza per azioni concrete: racconta Ceccutti che «una parte partecipa alle manifestazioni per chiedere al governo il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. La comunità si è poi collegata alla rete dei vari gruppi per la pace, promuovendo un programma di aiuti umanitari per gli ospedali di Gaza».
Le famiglie hanno quindi saputo trovare una via senza lasciarsi travolgere dall’odio. Per Ceccutti questo significa che «i due capisaldi sui quali si fonda il villaggio, educazione e dialogo, non sono stati messi in discussione. Anzi, stanno tenendo anche grazie ad anni di paziente lavoro».