Un invito alla fiducia, all’opera comune, a promuovere la pienezza e l’attrattiva della missione come unità visibile. L’omelia che l’Arcivescovo propone in Duomo, nel Pontificale da lui presieduto nella Festa liturgica di san Carlo Borromeo, è un richiamo, un auspicio e una richiesta, nel nome del copatrono della Diocesi, «impareggiabile Pastore», a camminare insieme, in comunione, soprattutto tra vescovo e clero.
Tutto, in Cattedrale, parla di san Carlo – e non solo nella sua ricorrenza -, tanto che il vescovo Mario, prima della Celebrazione, sosta in preghiera con i sacerdoti presso lo “Scurolo”, dove si conserva il corpo del Borromeo, del quale l’attuale successore indossa l’anello, il pallio, il pastorale, tendone tra le mani, all’elevazione, il calice.
Per l’occasione, concelebrano i Vescovi ausiliari – cui si aggiunge l’abate di “Santa Giustina” di Padova, dom Giulio Pagnoni, i membri del Consiglio Episcopale Milanese, del Capitolo della Cattedrale e molti presbiteri. Tra loro, l’arciprete del Duomo, monsignor Gianantonio Borgonovo, il moderator Curiae, monsignor Bruno Marinoni, il prorettore del Seminario, don Enrico Castagna e don Gaetano Binaghi, prevosto della Congregazione degli Oblati dei Santi Ambrogio e Carlo. Rappresentando tutti loro le Istituzioni volute, riformate o che direttamente si riferiscono al Santo patrono: la Cattedrale, la Curia, il Seminario, gli Oblati. Presenti anche i seminaristi, i diaconi, i Fratelli oblati, le Ausiliarie Diocesane, le Confraternite, gli Ordini cavallereschi e gli appartenenti alla famiglia Borromeo.
«San Carlo ha consumato la sua vita, le sue energie, le sue risorse per edificare il segno della Chiesa unita intorno al suo Pastore», sottolinea subito l’Arcivescovo, indicando l’opera del Santo per l’unità e «la generosità nel soccorrere i poveri, la vigilanza per difendere le prerogative della Chiesa cattolica rispetto al potere civile dell’autorità spagnola, il suo contrastare in tutti i modi l’infiltrazione della Riforma luterana».
Immediato il riferimento alla comunione, frutto dello Spirito. «Segno persuasivo del Regno che viene, è la Chiesa dalle genti, principio di fraternità universale».
Anche se, talvolta, può sembrare che l’idea borromaica di unità coincidesse con l’uniformità, proposta con disciplina ferrea, ciò non permette, comunque, di evitare l’interrogativo su quali siano le strade da percorrere oggi, «ereditando la Chiesa ambrosiana ed essendone membra vive in questo nostro tempo». Una domanda che – ammette il vescovo Mario – lui stesso sente come responsabilità inevitabile.
Da qui alcune «attenzioni».
In primo luogo, la fiducia. «Il vescovo, con il suo clero, è soltanto un servo e così voglio intendere il mio Ministero – e così invito preti e i diaconi a intendere il loro -, come un servizio offerto desiderando solo essere strumento dello Spirito. Perciò incoraggio tutto il clero a collaborare all’opera comune per il bene della comunità cristiana e della sua unità. È più importante il servizio all’unità che l’esibizione della originalità».
Chiarissima l’esemplificazione concreta. «I trasferimenti dei preti devono essere testimonianza di continuità lungo le linee diocesane, non cambiamenti radicali che sembrano intenzionati a cancellare la storia e a sconcertare la gente; nessuno deve decidere come se fosse padrone di una comunità, tutti coloro che sono chiamati al Ministero sono collaboratori dell’unico vescovo per l’opera comune che è frutto di un procedere sinodale. Non siamo chiamati a essere fotocopie, ma dobbiamo mettere tutte le nostre doti singolari a servizio di un’opera condivisa; le proposte diocesane e il calendario diocesano devono essere un punto di riferimento per le proposte parrocchiali e il calendario parrocchiale o della Comunità Pastorale. Tali proposte non solo un articolo al supermercato delle devozioni dove ognuno sceglie quello che più gli piace; il clero deve servire le persone, non farsi servire: i preti aiutare le persone a sentirsi pietre vive dell’unica Chiesa, non occupare incarichi».
Insomma, «un presbiterio unito, non uniforme, che coltiva rapporti fraterni e non solo amicizie selettive, che vive l’obbedienza, non come una zavorra o un fastidio, ma come la fierezza e la gioia di collaborare all’edificazione della Chiesa». Quel clero capace, «nell’edificazione del corpo di Cristo come un cuor solo e un’anima sola», di essere davvero l’immagine del buon Pastore certamente osservante di una disciplina, ma, ancora di più, consapevole di quanto sia «convincente l’attrattiva, la speranza condivisa, la persuasione che la comunione è irrinunciabile e che l’unità visibile tra le persone e le comunità, sia uno spettacolo bello da vedere, convincente agli occhi degli uomini e delle donne del nostro tempo».
Poi, l’affondo: «La nostra missione non è una pressione da esercitare per spingere la gente in una direzione, ma un’attrattiva da mostrare per motivare la corsa verso la meta. Perciò invito i miei più diretti collaboratori, preti e diaconi, e tutti i fedeli che desiderano condividere il servizio all’unità della comunità cristiana nella grande Chiesa di Dio, a mostrare che è meglio essere insieme piuttosto che disperdersi».
Infine, la richiesta. «Chiedo a tutti di evitare di giudicare gli altri e di lamentarsi. Chiedo piuttosto di dedicarsi umilmente, costantemente, tenacemente a praticare la carità fraterna, la dolcezza, l’umiltà, la magnanimità, la pazienza, il perdono vicendevole, la mitezza e la misericordia. Questi tratti rivelano meglio la verità del Vangelo che la frenesia delle iniziative o l’efficienza della organizzazione. La pienezza di Cristo è più attraente di ogni tradizione locale, di ogni iniziativa personale, di ogni dispiegamento di risorse. La pienezza di Cristo che si rivela nell’unità della Chiesa, nella carità e nella verità sarà forse il segno più necessario per offrire speranza al nostro tempo e alla nostra terra».