«Il sistema sanitario lombardo è eccellente e riconosciuto come tale anche da riviste scientifiche, ma il paradosso è che questo bene risulta insostenibile. Il problema dell’insostenibilità economica dell’eccellenza è un tema complesso: sotto gli occhi di tutti è che questa eccellenza sia un privilegio. Prova di questo è la sanità privata, che non può garantire a chi non può disporre di adeguate risorse quello che sarebbe un diritto di tutti. Credo che sia un appello condiviso, quello di un ripensamento che proporzioni il servizio ai cittadini e a tutti i cittadini, anche a quelli che non hanno le risorse per accedere a forme di sanità privata».
A dirlo è stato l’Arcivescovo, alla vigilia della XXXI Giornata Mondiale del Malato (11 febbraio), a conclusione dell’incontro svoltosi presso la sede dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (OMCeOMI), la “casa dei medici” – come viene detta – dove gli viene anche conferita una medaglia d’oro. Una prima volta assoluta per gli Arcivescovi di Milano, di cui non si ricorda in precedenza una simile visita. Ad accoglierlo, oltre al padrone di casa, il presidente Roberto Carlo Rossi, anche i consiglieri e il presidente della Federazione Nazionale Filippo Anelli, giunto da Roma, e il presidente dell’Associazione Medici Cattolici di Milano Alberto Cozzi.
I saluti istituzionali
Ed è proprio Rossi che, aprendo il momento di dialogo, parla di una «giornata storica», richiamando «le due bellissime Lettere» dedicate alla classe medica e agli operatori sanitari dall’Arcivescovo, «Stimato e caro dottore…», scritta in epoca pre-pandemica e «Dovrebbero farle un monumento».
«Le sue parole per non lasciare mai solo il malato ci toccano, e così abbiamo fatto durante la pandemia, costata la vita a 379 tra medici e odontoiatri», sottolinea da parte sua Anelli, ricordando il 20 febbraio, Giornata delle Professioni Sanitarie, che vedrà presente alle celebrazioni nazionali il presidente Mattarella: «La comunicazione con il paziente diventa un modo nuovo di organizzare il sistema, anche dal punto di vista formativo e legislativo: vogliamo cambiare il codice deontologico, perché il medico non è chi cura la malattia, ma la persona».
Alberto Cozzi ringrazia l’Ordine, «che è una casa dei medici aperta e disponibile. Questo significa onestà intellettuale, stima e rispetto reciproco, come testimonia il premio “Anzalone” – conferito dall’Ordine il 18 ottobre -, che vede da anni la partecipazione anche dei medici cattolici. La presenza dell’Arcivescovo rende manifesta un’alleanza che la Chiesa vuole accrescere. In un contesto di emergenza educativa e sociale, che è anche medica, questo è molto importante. Tutti i giorni abbiamo notizia di aggressioni ai medici, tanto che la solitudine del medico è ormai considerato un problema grave e recensito dalle maggiori riviste specializzate. Su questo la Chiesa c’è in maniera forte, per richiamare tutti a una visione condivisa a benedizione dei malati degli stessi medici e della società».
Il “decalogo” dell’Arcivescovo
«Questa alleanza tra la Chiesa, che qui rappresento, e voi mi preme molto», spiega nel suo intervento centrale l’Arcivescovo, proponendo una sorta di «azzardo dei paradossi, con qualche provocazione che potrebbe aiutare a pensare». Dieci, nello specifico, tali paradossi.
Anzitutto, «l’imprevedibile potenzialità dell’ingranaggio, dove vi è una sorta di determinismo, di sistema condizionante e bloccato. Invece, per me, in tale ingranaggio – gli orari, il protocollo da applicare, la complessità della burocrazia che sembra espropriare la persona della sua originalità – vi è una straordinaria potenzialità per il medico che può stabilire delle relazioni. È la potenzialità di essere liberi pur in un ingranaggio. La capacità relazionale, oltre che quella doverosamente diagnostica e clinica, permette questo».
Secondo, «l’impagabile beneficio del limite, nel senso che il sistema sanitario comporta la presenza di altre professioni e di équipe per cui il medico non è il protagonista assoluto. In un momento nel quale la sensibilità contemporanea propone un individualismo esasperato che spinge a credere che un uomo sia tanto più importante quanto più è solo, ciò dice il contrario».
E ancora, «l’impagabile beneficio del limite, nel senso del prendersi cura anche quando la malattia è inguaribile. Il medico non può, certo, censurare la morte, che non è, così considerata, una sconfitta, ma uno stimolo a un’evoluzione del rapporto. Quando non si può più curare ci si può sempre prendere cura».
Senza dimenticare «l’insopportabile ovvietà dei luoghi comuni, come quello ”principe” del malato al centro, che è una buona intenzione, ma che rischia appunto di essere un luogo comune in un sistema sanitario che, per esempio, in questo momento non riesce a intervenire in modo tempestivo: basti pensare alle liste di attesa».
Poi, sull’«’insostenibile eccellenza del sistema», l’affondo: «Il sistema sanitario lombardo, riconosciuto eccellente, porta moltissime persone nella nostra regione per curarsi. Ma il paradosso è che questo bene risulta insostenibile e, per poter essere sostenuto, ha bisogno di ricorrere a una sanità privata che ha come scopo il business. Questa eccellenza è anche un privilegio rispetto a miliardi di persone che non possono avvalersi delle cure che qui vengono studiate e praticate». Chiaro il problema morale che ciò comporta: «Pensiamo al costo dei vaccini nella pandemia per i Paesi poveri».
Si prosegue con «l’inevitabile divaricazione tra la relazione e la tecnologia» – dove questa, di suo, tende a creare una distanza, mentre la terapia tende a stabilire una relazione interpersonale – e la sorprendente utilità dell’inutile, rappresentata per l’Arcivescovo «nella mentalità scientista e in gran parte di quella contemporanea, da ciò che non produce reddito e vantaggi visibili, come la spiritualità e la religione».
Eppure, «in questi tempi, si riscopre come la terapia risulti più efficace quando vi è un atteggiamento che si nutre di speranza, di preghiera e di fiducia».
Infine, «l’incredibile stupidità della presunzione che significa quell’atteggiamento supponente del paziente che pretende di essere curato a sua scelta, vedendo nel medico colui che deve solo eseguire ordini e cure, magari apprese dal malato su internet; l’imbarazzante condizione del medico che non si prende cura di sé e non fa quanto prescrive e dice agli altri e la stucchevole retorica dei monumenti». Con «quell’elogio sperticato della professione medica, del medico-eroe, che non riconosce però il bene che si fa. Un medico può essere un buon medico anche se non è un eroe, nella professione di tutti i giorni e nella pratica ordinaria».
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