«Noi siamo il popolo della Pasqua, quelli che bussano ai palazzi del potere per contestare il potere che vuole la guerra; quelli che visitano i luoghi della miseria per offrire l’amicizia che consente di intraprendere una vita nuova; che abitano i luoghi della desolazione, nelle carceri, nei ghetti della emarginazione, per testimoniare la vocazione di ogni uomo e di ogni donna ad avere stima di sé, a credere nella propria vocazione a una vita nuova».
Parole forti
È la Pasqua di Risurrezione del Signore e, tra le navate del Duomo, l’Arcivescovo, che presiede il Pontificale solenne concelebrato dai Canonici del Capitolo metropolitano, pronuncia parole forti, di quelle che scuotono e fanno riflettere sul coraggio della nostra fede e sulla sua responsabilità, a cui spesso sfuggiamo, perché l’annuncio del Risorto non sia solo una bella favola o una festa fatta di auguri, superficialità e consumismo vacanziero.
I Dodici Kyrie e i tanti gesti liturgici della Liturgia ambrosiana, le antiche melodie eseguite dalla Cappella musicale del Duomo e sottolineate dalle sonorità organistiche e, per l’occasione, da un ensemble di ottoni, le tre Letture tratte dal Nuovo Testamento – attraverso pagine degli Atti degli Apostoli, della I Epistola ai Corinzi e del Vangelo di Giovanni -, d’altra parte, definiscono il senso di una partecipazione a un nuovo inizio. Quello, più volte sottolineato in queste ore e, ancora di più, nel mattino di Pasqua: «l’incontro per trasfigurare l’umanità smarrita», come l’Arcivescovo intitola la sua omelia, rivolta ai fedeli che affollano il Duomo. Ai quali, all’inizio del Pontificale, l’Arcivescovo aveva già porto il suo saluto, in inglese, spagnolo e italiano, ricordando come sia «come e bello e gioioso essere nella Cattedrale, nel centro di Milano a celebrare la Pasqua, fondamento della nostra fede, cantando gloria a Dio perché ci ha qui radunati». Anche se doloranti e stanchi per tante situazioni terribili di questo mondo, pare suggerire, poi, nella sua riflessione.
Le domande dell’esasperazione
«La gente, infatti – nota -, è stanca delle situazioni drammatiche, delle vicende tragiche di cui non si vede via d’uscita. Perciò si aggirano le domande dell’esasperazione: “Fino a quando durerà ancora questo momento greve della storia dell’umanità?” L’esasperazione degenera poi in disperazione di cui raccogliamo», noi come i discepoli di Gesù, «il grido nelle carceri dove il regime si è fatto severo, nelle miserie dove le promesse si sono rivelate inganni, nelle emarginazioni dove i muri si sono fatti invalicabili. Fino a quando? Fino a quando?».
Una rassegnazione che corrode anche la fede, diventando «insopportabile immaginare un dio che, secondo le fantasticheria dell’umanità, non ascolta, non interviene, non ferma la mano assassina, non impone, alle armi, il silenzio e non regala alla terra il pane necessario e la pace irrinunciabile».
Fino a quando, Signore?
E, accanto alla rassegnazione, ci sono anche le domande del possesso, «un tormento e l’intenzione di un desiderio miope di sentirsi padroni», magari, del mondo.
«L’esperienza insegna che il possesso è una soddisfazione di breve durata. Eppure, il desiderio di possedere, di trattenere per sé continua ad ardere come un’aspirazione che dà motivo alla fatica, che promette se non la felicità, almeno un sollievo, un ricatto che crea dipendenze. L’astuzia del maligno suggerisce di mettersi a servizio degli idoli, come fossero capaci di colmare il vuoto della vita con la rassicurante proprietà dell’oro, dei rapporti possessivi, delle apparenze».
Possesso che non è assente – sottolinea monsignor Delpini -, anche in una devozione inquinata «come se la preghiera, la pratica religiosa fossero un modo di possedere Dio, di trattenere Gesù dentro le proprie attese, dentro le proprie pretese, dentro i propri schemi».
Il fascino della vita nuova
Quel Signore che, invece, risorto per sempre, «rivela il fascino di una vita nuova, visita le situazioni insopportabili, non offre la soluzione invocata e pretesa, piuttosto affida la missione di essere protagonisti ispirati da Dio per mettere mano all’edificazione della nuova umanità».
Protagonisti come «gente di Pasqua», appunto, che contesta il potere dei signori della guerra, che entra nei ghetti, nei luoghi dell’emarginazione, raccogliendo «la domanda dell’umanità in lacrime che vorrebbe trovare un corpo morto, un possesso per riempire il vuoto». Tutti come Maria di Màgdala che cerca il “suo” Signore e alla quale Gesù rivela «che non è più tempo di lacrime e di rimpianti, ma di missione e di gioia, seminando la vocazione alla speranza, alla trasfigurazione della vita in una vita di pace».
In conclusione, prima della benedizione papale, con annessa l’indulgenza plenaria impartita dall’Arcivescovo per facoltà ottenuta da papa Francesco, ancora un pensiero di gratitudine per tutti coloro «che hanno reso possibile vivere in modo intenso e ordinato il Triduo, fino a questo giorno. Che la Pasqua sia andare incontro al Signore, cercarlo con intensità ogni giorno per vivere secondo la sua parola».