Che Giuseppe fosse un carpentiere è noto da tutte le testimonianze evangeliche. Il termine greco téktôn, che ritorna nei vangeli, di per sé designa il falegname o il carpentiere; in ogni caso «colui che esercita il suo mestiere con un materiale duro che conserva la sua durezza durante la lavorazione, per esempio legno, pietra, corno, avorio». Non un fabbro dunque; in ogni caso un uomo dalle mani indurite dal lavoro e con un lavoro di tutto rispetto, e che, come tale, conduceva un tenore di vita decoroso, ma semplice e modesto, assimilabile a quello che oggi chiameremmo di “lavoro dipendente” o di certi artigiani a struttura familiare e ristretta.
È altrettanto noto poi che fu Pio XII nel 1955 a “santificare” il 1° maggio—la tradizionale festa laica del lavoro—, con l’istituzione della memoria di san Giuseppe artigiano, patrono di tutti i lavoratori e protettore del mondo del lavoro, di cui abbiamo bisogno, come non mai, vista la mancanza di lavoro in generale, la precarizzazione del lavoro, i salari e la perdita di lavoro per tante persone.
Imparare un mestiere
La prima osservazione, la più ovvia, è che Gesù tra le tante cose che ha appreso nei suoi trent’anni di “vita nascosta”, ha specialmente imparato di cosa vivono, soffrono e gioiscono gli uomini, compresa la fatica e il sudore del lavoro, ma anche la passione e la gioia di stare accanto al papà Giuseppe e imparare da lui un mestiere, ossia una delle esperienze più fondative e fondamentali della vita umana—solo l’essere umano infatti lavora: solo lui è homo faber!—; un mestiere che nel caso di Gesù, come di Giuseppe, e come di tutti noi, ne fissa per così dire l’identità, la personalità. Così era definita l’identità di Gesù fin dall’inizio folgorante del suo ministero pubblico: «Non è egli il falegname (téktôn), il figlio di Maria?» (Mc 6,3); «Non è forse il figlio del carpentiere (téktônos)?» (Mt 13,55). E non è forse vero che, quando una persona che non ci conosce ci incontra, la prima domanda che ci fa è: “Ma tu che mestiere fai; qual è la tua professione?”. È dalla risposta che noi diamo, che quella persona si fa una prima idea, un primo quadro di noi. Il lavoro ci definisce, ci dà una identità, ci colloca nel mondo.
Il lavoro è anche altro
Certo il lavoro non è solo questo… così come non è certamente e peculiarmente il modo attraverso il quale sostentiamo la nostra famiglia, ci diamo un certo benessere di vita, cooperiamo al bene comune e così via. Siamo fondati sul lavoro—lo dice anche la nostra Costituzione per quanto una civiltà non si “fonda” sul lavoro, ma su ciò che sta “oltre” e “sopra” il lavoro—; il lavoro costituisce la questione economica per eccellenza, proprio perché l’economia è lavoro, è prodotto del lavoro; è attraverso il lavoro che noi passiamo dai bisogni ai beni e ai servizi. E tuttavia il lavoro è altro…, ma da tempo non ne percepiamo più il senso, il suo significato simbolico, etico, teologico-spirituale. Si parla molto—e giustamente—di crisi del lavoro, di perdite del lavoro, di politiche del lavoro e così via… ma non è tutto.
Da questo punto di vista si deve anzitutto dire che il lavoro è—nella prospettiva biblica, credente, cristiana—primariamente una professione di fede, una vocazione; i tedeschi (a cominciare da Lutero e poi Calvino) usano questo termine per designare il lavoro: beruf, che significa, non a caso, sia lavoro, mestiere, professione che vocazione, dunque una chiamata, un compito assegnato da Dio, una benedizione alla fine! È una cosa buona il lavoro, è connaturale all’uomo; non è solo un dovere e qualcosa di utile; è proprio un bene, un bene degno dell’uomo e dal profilo profondamente religioso—se ne era accorto anche uno dei padri laici della sociologia moderna come Max Weber nel 1904 con Etica protestante e spirito del capitalismo—, qualunque lavoro io faccia, dal più umile al più ‘elevato’. Ma non esistono lavori umili od elevati, esistono lavori e basta. E i testi biblici, a cominciare dal libro del Genesi, confermano questa struttura radicalmente religiosa e buona e degna del lavoro di cui l’uomo è capace (ecco la chiamata, la vocazione!). Basterebbe ricordare il momento in cui si dice nel Genesi che «Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata—perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo» (Gen 2,4-5), per capire come la terra da noi abitata e predisposta da Dio sarebbe un deserto senza il lavoro dell’uomo; è il lavoro dell’uomo che trasforma (dovrebbe trasformare) la terra in un giardino. E volesse Dio che capissimo questa cosa; capissimo che il lavoro è orientato a dare un ordine bello e pulito al mondo così da vincere il caos e il male. Non si vive per lavorare (sarebbe un idolo), né si lavora solo per mangiare il pane; si lavora per ornare e abbellire il mondo così come ce lo ha consegnato Iddio!
Obbedienza a un comandamento
È da qui che si comprende come l’opera dell’uomo—alla radice della produzione e del consumo—è obbedienza a un comandamento, e come deriva da essa, e solo da essa il proprio valore e il proprio criterio. Che ultimamente è il modo attraverso il quale si accoglie storicamente l’annuncio del regno di Dio da parte di Gesù, ossia ci si impegna per un “nuovo” odine sociale costruito attorno al dono di sé nel lavoro, dunque attorno alla prossimità, a partire dai più deboli e dai più poveri (e dai giovani)! Esercizio di vera e propria santità il lavoro. È una grave mancanza che la Chiesa (per non parlare della teologia accademica) si sia dimenticata del messaggio sociale e politico del cristianesimo.
La memoria di San Giuseppe lavoratore ci vuole aiutare così a come «possiamo trovare le strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!» (papa Francesco), così che ciascuno viva con dignità e serenità.