di Rita Salerno
Primo Pontefice a varcare la soglia di una moschea, Giovanni Paolo II è anche il primo a predicare a una folla musulmana, il primo a entrare in una sinagoga. Ad Assisi, eletta a città simbolo della pace, raduna rabbini, shintoisti, giainisti e zoroastriani, imam e bonzi. Con lui il confronto con le religioni conosce un nuovo impulso. Il «Profeta inascoltato», come qualche osservatore poco attento lo definirà, ha ispirato diverse iniziative nel segno del confronto, come durante gli anni farà la Comunità di S. Egidio promuovendo summit internazionali.
Nel corso del suo pontificato non poche dichiarazioni per la pacifica convivenza tra i popoli sono state firmate da tutti i massimi esponenti religiosi. È cresciuta, nel tempo, la consapevolezza del contributo sostanziale che le religioni possono offrire alla pace per l’umanità. Ma non sempre l’invito del Papa al dialogo è stato accolto e non di rado q uesto cammino ha conosciuto momenti di arresto e ostacoli imprevisti. «È necessario essere insieme, non essere insieme è pericoloso!»: nel corso degli anni, il Pontefice ripeterà spesso questo appassionato appello ai leaders religiosi.
Nelle sue visite in Paesi multireligiosi è sempre previsto un incontro con i capi delle religioni non cristiane. Soprattutto nella fase più avanzata del suo pontificato, Giovanni Paolo II spinge sul tasto del confronto interreligioso. Come fa in occasione della sua visita in India nel novembre 1999, quando rivolgendosi ai rappresentanti di altre religioni e di altre confessioni cristiane dichiara: «È un segno di speranza che le religioni del mondo stiano divenendo sempre più consapevoli della loro responsabilità comune per il benessere della famiglia umana».
Poco prima, esattamente dal 24 al 28 ottobre 1999, il Papa ha accolto in Vaticano i rappresentanti delle religioni del mondo, riunitisi per sviluppare i risultati dell’incontro di Assisi del 1986. Un’assemblea religiosa che si conclude con una dichiarazione in cui si sottolinea l’urgente necessità di «lavorare insieme per impegnarsi a prevenire i conflitti e superare le crisi che esistono in diverse parti del mondo». E, di conseguenza, «la collaborazione tra le differenti religioni deve basarsi sul rigetto del fanatismo e dell’estremismo che conducono alla violenza».
Tolleranza e rispetto sono i sentimenti che ispirano questo documento, contenente un appello ai leaders religiosi «perché promuovano lo spirito del dialogo nelle loro rispettive comunità e siano pronti a impegnare nel dialogo le stesse comunità con la società civile a tutti i livelli». L’incontro, che precede di poco il Giubileo, è anche l’occasione per chiedere reciprocamente «di dimenticare gli errori passati, di promuovere la riconciliazione dove le esperienze di dolore del passato hanno portato divisioni e odi, di impegnarsi in prima persona per superare l’abisso tra ricchezza e povertà e di lavorare per un mondo di giustizia e pace durevole ». Un testo dagli intenti chiari e inequivocabili, che nel magistero petrino hanno la loro pietra angolare.
In non poche circostanze Giovanni Paolo II ribadirà che «la religione non è e non deve diventare un pretesto per i conflitti, soprattutto quando l’identità religiosa, culturale ed etnica coincidono. La religione e la pace vanno di pari passo: dichiarare guerra in nome della religione è un’evidente contraddizione». E il 24 febbraio 2002, un mese dopo il terzo appuntamento di Assisi, farà giungere a tutti i capi di Stato e di Governo le riflessioni scaturite dall’incontro interreligioso. Quello che è stato definito il “decalogo per la pace” di Giovanni Paolo II è un documento che riprende le affermazioni solennemente pronunciate dagli esponenti di dodici religioni presenti nella città del Poverello, accompagnato da una lettera in cui il Pastore della Chiesa universale si dice convinto che le dichiarazioni di Assisi potranno «ispirare l’azione politica e sociale del governo».
Consapevole dei pericoli che corre l’umanità dopo i tragici avvenimenti dell’11 settembre 2001 legati agli attacchi terroristici alle Torri Gemelle, nei suoi colloqui con i rappresentanti di altre religioni, Papa Wojtyla non perde occasione per invocare pace e giustizia per il mondo intero. Come fa a Baku, in Azerbaigian, il 22 maggio 2002: «Da questo Paese, che ha conosciuto e conosce la tolleranza come valore preliminare di ogni sana convivenza civile, vogliamo gridare al mondo: Basta con la guerra in nome di Dio! Basta con la profanazione del Suo Nome Santo! Fino a quando avrò voce io griderò: Pace, nel nome di Dio! ».
E poco prima, giungendo nel Paese a maggioranza islamica, Giovanni Paolo II dichiara che «le religioni non sono e non debbono essere tragico pretesto per contrapposizioni che hanno altrove la loro origine. Chiedo ai responsabili delle religioni di rifiutare ogni violenza come offensiva del nome di Dio, e di farsi promotori instancabili di pace e di armonia, nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno».