«Il ruolo del giudice nella società che cambia» è il titolo di una conferenza tenuta dal giudice Rosario Livatino il 7 aprile 1984 a Canicattì. Queste stesse parole hanno guidato la riflessione del convegno di studi tenutosi oggi a Milano in ricordo del magistrato trucidato dalla Stidda (la mafia di Agrigento) il 21 settembre 1990, a soli 38 anni. Un martire indirettamente anche della fede, come ebbe a dire Giovanni Paolo II parlando di questo giovane uomo dalla fede grande, il “giudice ragazzino” oggi Servo di Dio e avviato alla beatificazione.
I saluti di Anelli e Giuliodori
«Uno Stato civile che conta una trentina di giudici uccisi dalla criminalità organizzata non è civile. In un’epoca in cui si parla tanto di sovranità è evidente che questa è una grande perdita di sovranità. Livatino, con il suo sacrificio, ha rimesso un tassello a tale sovranità slabbrata», dice con chiarezza il rettore Franco Anelli nel saluto introduttivo dei lavori che si svolgono presso l’Università Cattolica, con la partecipazione dell’Arcivescovo, di magistrati, avvocati, docenti e tanti giovani.
Monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo, nota: «Gli operatori della giustizia hanno una responsabilità in più, oltre l’applicazione delle leggi, esercitando a pieno un compito di discernimento sociale dei cambiamenti in atto. L’indipendenza nel giudice è la sua credibilità. Livatino ha saputo incarnare tutto questo. La sua fulgida testimonianza feconda, con il sangue, un terreno decisivo per il futuro. Non può esserci esercizio della giustizia senza virtù che è, peraltro, una delle virtù cardinali, punto di appoggio e di snodo, indicazione di una direzione».
L’intervento dell’Arcivescovo
Proprio da quella che l’Arcivescovo, riflettendo sulla vocazione cristiana del giurista, definisce «la via alla santità del giudice nella società che cambia», si avvia il suo intervento. Via come «dimensione spirituale e vocazione cristiana, possibile itinerario che, come tutti i percorsi di santità cristiana, noi giudichiamo con la logica del morire e del risorgere, di un morire che non è sperpero della propria vita».
L’Arcivescovo stila così una sorta di decalogo tra «cinque passi della discesa agli inferi nell’amministrazione della giustizia di questo Paese e altrettanti luoghi simbolici e concreti di elevazione nella gloria». La discesa che viene «dall’impressione soffocante della quantità di lavoro che incombe sui giudici, per la cronica insufficienza dell’organico, e che fa rimanere come schiacciati dal lavoro arretrato. Un secondo passo è una sorta di smarrimento a ragione della complessità della legislazione nel nostro Paese, confusa e, talvolta, persino contradditoria, che può indurre allo scoraggiamento. Inoltre, la constatazione della litigiosità, lo sconcerto per l’accanimento nel farsi del male, magari anche tra persone che si sono volute bene: marito e moglie, vicino di casa, soci. Gente che vive il litigio come desiderio di rivincita e non di giustizia».
E poi, ancora, «lo spavento per il male che le persone possono fare». Il male è un mistero sempre sconcertante, ma chi vuole santificarsi nella sua professione, ha ragione di spaventarsi ancora di più del male che può impadronirsi del cuore umano, suggerisce. Infine, «la pena prevista dalla legge che deve far pensare il giudice con la monotonia di dosare anni e mesi di carcere che fanno soffrire», magari «senza favorire quel cambiamento che sarebbe auspicabile, senza segnare una speranza e garantire una proporzione tra il male compiuto e la pena comminata. Questo può essere un tormento per il magistrato. Il giudice Livatino ha percorso questa discesa fino a trovare la morte».
I luoghi dell’elevazione
Ma nella coerenza al Vangelo e nella sua logica vi sono poi i cinque “luoghi” dell’elevazione nella gloria «che è l’altro aspetto della santità cristiana».
Anzitutto, «la capacità di riconoscere sempre la dignità della persona e di distinguere tra la condanna dell’azione e colui che la commette, che dà dignità al giudice. Il giudice cristiano deve avere questa capacità».
Vi è poi «il principio della coerenza contro quello del successo, dell’approvazione dei mass media o dell’accondiscendenza alla pressione dell’opinione pubblica», cui si aggiunge la cura per il bene comune e non per l’interesse privato. «Il bene comune è il bene del convivere e, dunque, una professionalità al servizio del bene deve vigilare sul rischio di forzare normative per interessi di parte».
Un quarto passaggio viene intitolato dall’Arcivescovo «i diritti dei deboli e non l’arroganza dei prepotenti»: «La legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali neppure di fronte alla legge. Il giudice che vuole santificarsi cerca di custodire il diritto soprattutto dei deboli a difendersi, perseguendo – ed è l’ultimo aspetto – la giustizia possibile e non l’utopia rivoluzionaria».
Insomma, un principio di realismo virtuoso «che non è accettazione della mediocrità e della rassegnazione, ma è la convinzione che, soltanto compiendo con tutte le forze il bene possibile, si fa un passo avanti verso il bene desiderabile. L’utopia rivoluzionaria può presentarsi come proposta desiderabile di un intervento violento che improvvisamente rinnova la società, ma, nella storia, ha sempre creato situazioni più complicate e ingiuste». Seguendo la vicenda di Livatino «si può incoraggiare chi desidera vivere questa professione dicendo che è possibile diventare santi, discendendo agli inferi ed elevandosi nella gloria. Chi fa onestamente il suo dovere avrà, non soltanto l’approvazione degli uomini, ma la benedizione di Dio».
Come a dire – con le parole di Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Suprema Corte di Cassazione – che il ruolo di impegno morale, oltreché professionale, di un giudice si basa su una credibilità che nasce dalla coscienza e dall’indipendenza: «Da Rosario Livatino, ucciso a poca distanza da dove era stato trucidato un altro magistrato, Antonino Saetta, distintosi per avere applicato la legge secondo ragione e Costituzione, viene a tutti noi una lezione di etica, perché la legittimazione del giudice passa dalla sua affidabilità. La forza dello Stato di diritto è proporzionale alla forza dei principi che governano la Magistratura».