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L’Eucaristia, cuore della Domenica

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22 aprile 2018

Il “Credo” professa la regola della fede

Nel rito romano è anzitutto il punto di arrivo dell’ascolto della Parola, in quello ambrosiano è primariamente la porta di accesso al mistero eucaristico

a cura del SERVIZIO PER LA PASTORALE LITURGICA

12 Aprile 2018

Il secondo grande testo, che nella celebrazione eucaristica è affidato all’assemblea, è il Credo «con il quale i fedeli – come si legge nelle premesse al Messale – esprimono la loro unica fede nella santissima Trinità». La sua forma principale, e unica fino a epoca recente, è detta Simbolo niceno-costantinopolitano, perché rispecchia in buona sostanza quanto approvato nei concili ecumenici di Nicea (325 d. C.) e di Costantinopoli (381 d.C.), sulla base di un testo antecedente largamente condiviso (il credo battesimale di Gerusalemme). Oggi, in alcune specifiche circostanze, come le domeniche di Quaresima o il sabato in traditione Symboli, è possibile utilizzare anche il cosiddetto Simbolo degli Apostoli, più antico, breve e conciso e con «una funzione marcatamente battesimale». In questa scheda faremo costante riferimento al Simbolo niceno-costantinopolitano, ma alcune osservazioni sul suo uso liturgico valgono allo stesso modo per il Simbolo degli Apostoli.

Poiché nella liturgia dei primi secoli la professione di fede era strettamente associata al rito del battesimo, e l’apprendimento del Simbolo avveniva nell’ultimo tratto della preparazione al battesimo, il Credo entrò nella messa festiva solo più tardi e a poco a poco: a Costantinopoli, all’inizio del sec. VI; in Spagna, alla fine del sec. VI; in Gallia, all’epoca di Carlo Magno; a Milano, forse già nel sec. IX; a Roma, solo all’inizio del sec. XI. In occidente poi il testo originario si arricchì dell’affermazione che lo Spirito Santo «procede» oltre che «dal Padre» anche «dal Figlio» (Filioque), e questo creò la premessa per una lacerazione tra Oriente e Occidente che permane fino a oggi.

Anche la sua collocazione nella messa ha conosciuto nella storia differenze significative come emerge ancora oggi dal confronto tra il rito romano e il rito ambrosiano. Infatti, mentre nella liturgia romana il Credo è proclamato al termine dell’omelia, dopo aver ascoltato la parola di Dio e il suo commento, perché «la fede viene dall’ascolto» (Rm 10, 17), nella liturgia ambrosiana, in questo più vicina all’uso orientale, il Credo sta tra la presentazione dei doni e l’orazione sulle offerte, alle soglie della preghiera eucaristica, «quasi a significare – come scriveva l’arcivescovo Giovanni Colombo nel piano pastorale 1978/79 – che l’adesione dello spirito credente alle tre Persone divine, che si sono manifestate nella storia della salvezza, è la preparazione più alta e più necessaria a entrare nel cuore del mistero eucaristico, cui si partecipa». Detto in altro modo: la «regola della fede» professata nel Credo, per gli uni (i romani) è, anzitutto, il punto di arrivo dell’ascolto della Parola, mentre per gli altri (gli ambrosiani) è, primariamente, la porta di accesso al mistero eucaristico. Di fatto, queste due prospettive, pur con i loro rispettivi accenti, si completano, si illuminano e si arricchiscono vicendevolmente.

La parola Credo, ripetuta quattro volte, scandisce il testo del Simbolo in quattro sezioni: nelle prime tre il fedele professa la sua fede nelle tre Persone della Trinità, che sono l’unico Dio (credo in un solo Dio, Padre onnipotente; credo in un solo Signore, Gesù Cristo; credo nello Spirito Santo); nell’ultima, professa la Chiesa (credo la Chiesa) nelle sue caratteristiche essenziali (l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità), nel suo fondamento battesimale e nella sua speranza escatologica.

La parte più sviluppata è la seconda, quella relativa a «Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio», prima contemplato nella sostanziale condivisione della divinità del Padre, così come il concilio di Nicea aveva chiarito («generato, non creato, della stessa sostanza del Padre»), e poi narrato nei misteri della sua vita terrena e celeste: l’incarnazione «nel seno della vergine Maria», la crocifissione, la morte e la sepoltura, la risurrezione e l’ascensione al cielo, la sua seconda venuta nella gloria come giudice dei vivi e dei morti. In questa sezione tutti devono accompagnare le parole «e per opera dello Spirito Santo… si è fatto uomo», con l’inchino o, alla VI domenica di Avvento, a Natale e all’Annunciazione (25 marzo), con la genuflessione. Sono queste due posture del corpo necessarie a sottolineare il punto capitale della fede cristiana, perché nella carne assunta dal Verbo noi abbiamo «corporalmente – come scrive l’apostolo Paolo – tutta la pienezza della divinità» (Col 2, 9). Per il resto si sta in piedi. Ciascuno parla in prima persona (io credo), ma la recitazione comune ne fa un atto profondamente corale ed ecclesiale. Naturalmente occorrerà aver cura di andare insieme così che l’amalgama delle voci manifesti la fusione delle menti e dei cuori. L’impegno a eseguirlo in canto è meno stringente che per il Gloria, ma è comunque una buona cosa che ogni comunità sappia cantare anche il Credo, sia in latino che in italiano, nella sua totalità o almeno nei suoi passaggi fondamentali (i quattro «credo»). Un bel risalto va dato infine all’Amen finale, che ben riassume tutta la precedente professione di fede.

 

La monizione per tutte le Messe

Il secondo grande testo, che nella celebrazione eucaristica è affidato all’assemblea, è il Credo «con il quale i fedeli... esprimono la loro unica fede nella santissima Trinità». La sua collocazione nel rito romano e nel rito ambrosiano esprime due punti di vista complementari: dopo l’omelia per sottolineare il fatto che – come scrive san Paolo – «la fede viene dall’ascolto»; dopo la presentazione dei doni, alle soglie della preghiera eucaristica, per preparare i fedeli a entrare nel cuore del mistero eucaristico. Strutturato in quattro parti, ciascuna delle quali introdotta dal verbo «credere» alla prima persona singolare, passa dapprima in rassegna le tre Persone della santissima Trinità, con il rilievo maggiore dato a «Gesù Cristo unigenito Figlio di Dio», per concludere sulla Chiesa. Lo si recita o canta stando in piedi, ma alle parole relative al mistero dell’incarnazione si fa l’inchino o, quando è prescritto, ci si inginocchia chiamando anche il corpo a partecipare alla professione della fede fatta con le labbra e nel cuore.

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