Nonostante gli sforzi del governo, in Etiopia il numero di parti che si conclude con la morte della madre o del bambino continua a essere incomparabilmente superiore a quello che si registra in un qualsiasi Paese avanzato. Le campagne nazionali per scoraggiare i parti senza assistenza hanno prodotto risultati inferiori alle aspettative. A dispetto delle statistiche ufficiali, gli osservatori indipendenti stimano che ancora oggi la metà della donne mette alla luce i propri figli da sole e al più con l’aiuto di madri e parenti, in condizioni igieniche molto al di sotto di standard minimi di sicurezza. Nei villaggi rurali questa percentuale può essere ancora superiore.
Per un anno, fino al giugno scorso, Alessandro Greblo, milanese, 40 anni, esperto di sanità pubblica, ha formato ostetriche e personale infermieristico dell’ospedale di Wolisso, all’interno di un programma per la riduzione della mortalità infantile sostenuto dal Cuamm Medici con l’Africa, i cui risultati saranno presentati, insieme a quelli di altri progetti, nel corso dall’Annual Meeting ad Assago, sabato 11 novembre.
Dottor Greblo, perché, nonostante tanti sforzi, c’è ancora tanta resistenza da parte della popolazione locale ai parti assistiti?
Ci sono senza dubbio ragioni culturali: nella mentalità etiope e africana in generale, il parto è ancora fortemente legato a una visione ancestrale della maternità. Ma contano anche motivazioni molto concrete. Le donne sono un pilastro dell’economia dei villaggi agricoli: badano ai figli, in genere 4 o 5 per ognuna, coltivano i campi. Durante la raccolta del teff, il cereale alla base dell’alimentazione etiope, nessuna di loro può permettersi di abbandonare il villaggio. Nella stagione delle piogge, poi, le strade diventano impraticabili e raggiungere l’ospedale più vicino non è possibile.
In questo contesto quali erano gli obiettivi del progetto?
Sviluppare un piano di salute pubblica sul territorio, attraverso la realizzazione di ambulatori e dispensari e la formazione professionale di operatori sanitari locali. La medicina di prossimità è la sola che può funzionare in quello specifico territorio.
L’Etiopia è una terra di transito per migranti, alcuni dei quali oggi giungono anche sulle nostre coste. Lei ha una lunga esperienza di lavoro in diversi Paesi africani. Che cosa pensa del dibattito sui migranti che occupa così tanto spazio nel nostro Paese?
Personalmente sono molto colpito dalla superficialità e dall’enorme strumentalizzazione politica. La paura di un’invasione che viene tanto agitata non ha alcun fondamento se si guarda alla realtà dei fatti, per un semplice e banale motivo: i poveri più poveri non hanno le risorse per arrivare da noi. E, infatti, il grosso dei flussi migratori africani avviene da uno Stato all’altro, non fuoriesce dal continente.
Ultimamente si è riscoperta, forse in modo un po’ “peloso”, il valore della cooperazione internazionale, con lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”. Cosa ne pensa?
Oggi l’Africa, il mondo al di là del Mediterraneo, è l’anticamera di casa nostra, dove vale la pena impegnarsi e portare professionalità e progresso, nel rispetto delle culture locali, per il bene di tutti, anche in Italia. Ma dobbiamo investire in programmi seri e avere la pazienza di valutare i risultati a lungo termine.