Una settimana dopo i ballottaggi, quando ormai i sorrisi distesi e pieni di soddisfazione, come pure i volti delusi e stizziti si stemperano e si trasformano in sguardi concentrati e al tempo stesso preoccupati per la responsabilità che il confronto con la situazione reale richiede, è tempo di bilanci anche per le comunità cristiane. La nostra riflessione ha come principale riferimento le elezioni comunali avvenute nel contesto diocesano, in particolare nella città di Milano. Ma non può ignorare il più ampio risultato nazionale. Così come non può escludere i primi echi del risultato eclatante del referendum britannico.
Se questo è lo scenario, un primo dato si impone immediato. I diversi commentatori si sono concentrati sull’analisi del voto, sui suoi spostamenti, sulla sua volatilità e/o imprevedibilità. Molta meno attenzione critica è stata data all’offerta politica, ai prodotti cioè che l’attuale mondo politico è riuscito ad assemblare come risposta ai bisogni e alle attese dei cittadini elettori. Penso che soprattutto su questo punto invece si debba concentrare l’attenzione critica delle comunità cristiane. Per comprendere quanto questa offerta sia adeguata alle sfide che le trasformazioni epocali («siamo in un cambiamento d’epoca, non in un’epoca di cambiamenti», ci ricorda Papa Francesco) stanno imponendo all’Europa, e di conseguenza anche alla Milano metropoli europea che abitiamo.
Osservato da questa prospettiva, il voto ci svela un corpo elettorale che, almeno nel nostro contesto, si è rivelato equilibrato, moderato e maturo più della proposta che ha ricevuto. La campagna elettorale ci ha consegnato volti, slogans, affermazioni di principio, ma non ci ha aiutato a costruire il racconto della Milano che stiamo vivendo, della città metropolitana che siamo chiamati ad accompagnare nella nascita e nella crescita. L’offerta politica ci ha aiutato poco a vedere con quali corpi, strumenti e azioni riusciremo a riscrivere quel legame quotidiano di intraprendenza, accoglienza e solidarietà che ha permesso alla Milano del secondo dopoguerra di rinascere e avviare una fase di espansione e crescita economica e sociale.
La Milano plurale del ventunesimo secolo è rimasta con la sua fame. Le periferie, le fasce deboli, quelle categorie di persone che le analisi recenti hanno etichettato con un nome denso di significato anche se poco lusinghiero come «i perdenti della globalizzazione», hanno avuto poca attenzione e considerazione. Le semplificazioni e le costrizioni che il mondo della comunicazione impone alla politica (a partire dalla dittatura dei sondaggi) hanno moltiplicato il senso di solitudine e di isolamento. Le istituzioni vengono percepite sempre meno capaci di rispondere alle necessità e ai bisogni impellenti del quotidiano. E i luoghi di elaborazione e decisione politica appaiono abitati da tecnocrati che elaborano ricette e soluzioni costruite non a partire dai bisogni dei più deboli, a Milano come a Bruxelles.
Dai sindaci appena eletti ci si aspetta un’attenzione precisa e progettuale verso tutte queste persone che, in seguito all’indebolimento del legame sociale, si sentono orfane e abbandonate. Ci si aspetta, dai nuovi sindaci, che mettano al centro della loro azione l’edificazione di una «vita buona» nella società plurale e meticcia che è Milano (la Lombardia). In questo compito non sono soli: possono contare sulla solidarietà e anche sull’impegno attivo di molti uomini e donne di buona volontà. Possono contare sui tanti cristiani che, come il comunicato firmato dalle associazioni e dai movimenti ecclesiali presenti nella Diocesi di Milano ha messo in luce, intendono impegnarsi, sostenere e monitorare l’azione politica, proprio in vista della vita buona che auguriamo e che vogliamo realizzare per ogni uomo e donna di Milano, dell’Europa, del mondo.