«Vedere questa aula piena non è banale». È chiarissimo (ed evidentemente soddisfatto) il rettore del Politecnico, Ferruccio Resta, nel dare il benvenuto all’Arcivescovo che intende mettersi in ascolto dei giovani. Ragazzi che accorrono in massa, affollando l’emiciclo dell’incontro e altre due aule collegate, per un totale di oltre 1000 presenze.Parla, il rettore – alla guida della prestigiosa Università frequentata da 42.000 studenti dal gennaio 2017 – di attenzione allo studio, delle grandi difficoltà che incontra la ricerca, dei cambiamenti che chiedono «alla formazione di comprendere il mutamento dei tempi». Vogliamo, aggiunge, «disegnare valori attraverso uno sviluppo sostenibile non limitato alle questioni ambientali; vogliamo dare un’uguaglianza di opportunità, crediamo in una comunità multietnica e unica. La nostra è una responsabilità sociale che tocca trasversalmente ognuno e le nostre competenze».
Don Marco Cianci, responsabile della Sezione per l’Università della Pastorale Giovanile, Servizio guidato da don Massimo Pirovano che è anche lui presente al dialogo insieme ad altri cappellani di Ateneo, rivolge il saluto di apertura richiamando i verbi indicati da papa Francesco nel Documento preparatorio per il Sinodo dei Giovani: «Ci aiuti a uscire, ad accettare la libertà interiore», dice
E, infatti, proprio dal desiderio di prepararsi adeguatamente al Sinodo del prossimo autunno nasce la scelta, da parte di tanti giovani universitari appartenenti a diversi movimenti e gruppi, di incontrare Delpini. Ventenni come Marta che studia fisica e ha coltivato l’amicizia con la collega musulmana Marian, egiziana che frequenta Farmacia, essendo nel nostro Paese da 3 anni. Si sono incontrate in un’esperienza di cooperativa studentesca e proprio da quell’esempio la giovane mediorientale ha deciso di fondare un’associazione per aiutare l’integrazione di altri ragazzi, la SUAI, Studenti Universitari Arabi in Italia.
Poi, Paolo che studia Agraria, dà voce alla riconoscenza per quanto scritto da Delpini nella sua Lettera agli Universitari, detto nella Redditio Symboli e per l’esperienza della Cappellania di “Città Studi” con don Cesare Beltrami. Raffaele, che fa ingegneria, si chiede quale sia la ragione per cui tanti amici perdono la fede nel tempo dell’Università e se questo sia dovuto a radici formative parrocchiali e oratoriane poco solide. Paolo, anche lui futuro ingegnere civile che ha trovato il Signore proprio grazie alle amicizie nate tra aule ed esami nel Movimento di Comunione e Liberazione, domanda che cosa si aspetta il Vescovo Mario. Da qui prende avvio la riflessione.
«Ho molta stima di voi che studiate e prendete sul serio la vita. Cosa aspetto da voi? Che i cattolici abbiano voglia di percorrere strade insieme», sottolinea monsignor Delpini, evidenziando l’“Editto” da lui rivolto ai giovani nel Redditio, ovvero di salutarlo con il kaire – ràllegrati – evangelico.
«Spero che possiate dire che c’è un motivo per essere contenti, anche se questa è oggi una lotta perché vi danno tante ragioni per essere preoccupati sul vostro domani e sul quello del mondo. Molte voci vi consigliano di essere spaventati: invece, io vorrei che voi foste gli angeli della primavera che dice a questo mondo europeo stanco, lamentoso e complessato un “rallegratevi perché siamo qui per cambiare questo mondo”».
Il ricordo va alla generazioni dei padri che, dopo la guerra, si rimboccarono le maniche per la ricostruzione. «Aggiustate, anche voi, il mondo. Le sfide di oggi in Università riguardo alla formazione, alla ricerca e all’integrazione sono molto interessanti, ma se manca la gioia per cui valga la pena metterci mano, non si farà nulla. Noi siamo quelli della speranza e della gioia. non perché abbiamo le competenze, ma perché le usiamo per migliorare la situazione esistente. Se un ingegnere ancora si emoziona, allora c’è davvero speranza per l’umanità».
La risposta arriva anche per la fragilità delle radici della fede: «È vero – nota l’Arcivescovo – spesso, in un ambiente nuovo come l’Università, si perdono punti di riferimento quali la parrocchia di origine. Anche questa è una sfida interessante: forse, la formazione di base è ancora troppo rivolta al nostro interno, invece, i cristiani sono fatti per essere missionari, non per stare in oratorio da sopravvissuti in un’esperienza residuale. Sono molto preoccupato per i giovani che sprecano la loro vita, perché sentono di non avere ragioni per fare il bene e si lasciano andare magari all’alcool o alle droghe».
«La formazione cristiana non è una specie di predisposizione a crearsi una corazza per resistere a un contesto ostile, ma nasce per dare luce agli altri. Noi siamo gente che brucia per avere fatto l’esperienza del Signore che è un fuoco che abita in noi. Lasciarsi abitare dall’amore di Dio ci rende capaci di amare. Questo è il miracolo».
C’è ancora tempo per un secondo giro di domande, come quelle che vengono da Anna che guarda alle sue esperienze chiedendosi cosa sarà di lei, quale sia ora la sua vocazione per seguire sempre di più Cristo.
La risposta dell’Arcivescovo viene attraverso la spiegazione del suo motto episcopale, “Plena est terra gloria eius”.
«L’ho scelto perché la mia persuasione è che Dio sia presente dappertutto. La sua gloria è l’amore che si comunica e dà l’unità della vita. Non c’è nessun posto sulla terra dove non vi sia l’amore di Dio, né esistono una donna o un uomo che non siano amati da Lui, qualsiasi cosa sia accaduta. L’amore del Signore non è solo una tenerezza o un incoraggiamento: è ciò che ci rende capaci, a nostra volta, di amare».
Il pensiero va anche alla vocazione in senso ampio, ciascuno con la propria: «La vocazione non è predestinazione, ma un cammino, è essere figli di Dio in comunione con Lui. Dio ha bisogno che noi siamo felici, è questo implica dei criteri di scelta sulla e nella vita, facendo qualcosa che ci piace nella logica di ciò che corrisponde al nostro profondo e portando bene agli altri. In questo senso, la scelta presbiterale o quella matrimoniale sono vocazioni, se convertite al criterio evangelico».
Infine la consegna: «Il rischio di una competenza specifica tanto esigente come la vostra è di astrarre dalla storia. I vostri studi sono impegnativi, ma non dimenticate mai l’umano. Occorre integrare la conoscenza tecnica con una mente che non riduca la ragione unicamente alla ragione scientifica: questo è il grande inganno del tempo moderno. La storia dice che non esiste solo ciò che si può calcolare, c’è qualcosa di più. Continuate a fare domande sul perché: vi autorizzo a farlo sempre».
L’applauso scrosciante che saluta queste ultime parole di un ex studente e professore di latino e greco, quale il Vescovo Mario è, dicono tutta la bellezza e la sincerità di un dialogo e di un incontro felici.