Nessuno è voluto mancare alla festa per salutare la famiglia Abdella, eritrei arrivati due anni fa, da un campo profughi etiope, a Sesto San Giovanni, grazie ai corridoi umanitari nei quali è coinvolta la Caritas. Con la mascherina di ordinanza, imposta dai tempi di pandemia, si sono presentati tutti. C’erano il mister della squadra di calcio dell’oratorio, dispiaciuto per dover dire addio a Mohamed, il figlio maggiore della coppia, «un’ottima ala, fondamentale per l’attacco». Le instancabili «nonne» della scuola di italiano per stranieri, che si sono prese cura prima del piccolo Salman, il secondogenito, e poi anche di Rayan, nato a settembre dello scorso anno all’ospedale di Sesto, mentre mamma Fatuma studiava la nostra lingua. E c’era naturalmente anche Stefania Russo, per tutti la «zia», la decana dei volontari, che è stata un punto di riferimento.
Ora gli Abdella continueranno il loro cammino a Caselle Landi, in provincia di Lodi. Grazie al Comune, che aderisce al sistema di protezione per richiedenti asilo (l’ex Sprar ora ribattezzato Siproimi), Salih, il capofamiglia, perfezionerà l’italiano e sarà aiutato a trovare un impiego. Ma il cuore della «famigliola», come con affetto è stata ribattezzata, resterà a Sesto San Giovanni e, in particolare, nella parrocchia di Santo Stefano, che l’ha adottata, facendola sentire parte della comunità. Per due anni gli Abdella hanno vissuto in una villetta a schiera insieme a una coppia, sempre eritrea, beneficiaria del progetto. La loro vita è stata scandita da impegni quotidiani: la scuola (Mohamed a giugno ha ottenuto la licenza media), i corsi di lingua, gli impegni domestici. Attorno a loro c’era sempre qualcuno.
«Non è stato facile all’inizio – confida Stefania Russo -. Ricordo la fatica che abbiamo fatto perché si presentassero puntuali agli appuntamenti. Oppure le serate spese con Fatuma, quando è nato Rayan, per convincerla a non sentirsi sconfitta se non lo poteva allattare al seno. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Vedere il padre, Salih, che dava il latte in polvere con il biberon al piccolo Rayan è stata una delle mie più grandi soddisfazioni». Le gioie e le fatiche della vita quotidiana, condivise, hanno cementato i legami di amicizia. «È stato uno scambio – continua Russo -. Se ripenso a questi anni di vita insieme a conti fatti, almeno per quanto mi riguarda, credo di aver imparato anche io molto da loro: per esempio a essere paziente con me stessa, a prendermi del tempo per fare quello che mi fa stare davvero bene. Ai loro occhi noi mamme italiane con i nostri mille impegni sembriamo delle pazze frenetiche. E forse non hanno tutti i torti».
Attraverso i corridoi umanitari, dall’estate del 2018 al 2020 sono stati accolti nella Diocesi di Milano 26 ospiti, tutti di nazionalità eritrea, ma provenienti dai campi profughi dell’Etiopia. Di età differente, scelti tra le persone più vulnerabili, i beneficiari del progetto finanziato dalla Conferenza episcopale italiana hanno avuto l’opportunità di arrivare nel nostro Paese e di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato. Suddivisi in piccoli nuclei, tenendo conto dei legami familiari o delle semplici relazioni di amicizia, sono stati ospitati in case a volte di proprietà della parrocchia in altri casi offerte a titolo gratuito da qualche cittadino. A ogni gruppo è stata assegnata un’equipe di professionisti in servizio nelle cooperative della Caritas ambrosiana coinvolte (Farsi Prossimo coop, Intrecci, Sociosfera, Novomillennio e Arcobaleno).
Ma a prendersi cura di ogni nucleo familiare insieme agli operatori ci sono stati anche i volontari della parrocchia. Proprio questa sorta di adozione, resa possibile dall’impegno dei parrocchiani, è stato il valore aggiunto di questi progetti. «Le storie umane dei nostri ospiti sono spesso drammatiche – spiega suor Cristina Ripamonti, dell’area Stranieri della Caritas ambrosiana, che ha seguito il progetto sin dal suo esordio -. Tra i beneficiari di questo intervento abbiamo avuto donne che hanno subito violenze; uomini che non hanno potuto curarsi nei campi profughi dove hanno vissuto, e questo ha aggravato le loro condizioni di salute. In generale, molti non avevano nessun tipo di istruzione. In queste condizioni il percorso verso l’integrazione è stato una corsa a ostacoli. I fallimenti erano dietro l’angolo. L’affiancamento di famiglie tutor e di volontari è stato fondamentale per evitare che non prevalessero sentimenti di frustrazione e scoraggiamento».
A due anni dall’avvio si è conclusa la prima fase dei progetti di accompagnamento. Ma non è finita l’accoglienza. A differenza della famiglia Abdella, altri ospiti proseguiranno il loro percorso d’integrazione nella stessa parrocchia dove hanno iniziato a muovere i primi passi. Altri, invece, hanno già trovato un impiego e sono in grado di vivere in maniere autonoma. Ognuno ha raggiunto un piccolo o un grande obiettivo. «Che siano stati grandi o piccoli i risultati, sono certa che i nostri ospiti non ce l’avrebbero mai fatta, se non avessero avuto a loro fianco oltre ai professionisti anche un’intera comunità che, anche quando sarebbe stato più facile abbandonare, li ha aiutati ad andare avanti», assicura suor Ripamonti.