Non serve spendere eccessive parole sui mutamenti del nostro tempo, anche perché sono evidenti. Il cambiamento demografico segna il calo delle nascite e l’invecchiamento di un Paese dove senza l’apporto dei pensionati crollerebbe il volontariato. Il tessuto lavorativo è mutato profondamente e la questione ambientale s’intreccia a quella sociale. La Chiesa vive dinamiche analoghe alla società. A meno figli messi al mondo corrispondono meno vocazioni. L’aumento della prospettiva di vita incide sul fatto che il clero, seppur sempre più anziano, sia ancora numericamente significativo. Da quando ho iniziato a seguire le cronache sento parlare di crisi della società, crisi della politica, crisi della Chiesa. Insomma, ho come l’impressione che la nostalgia del passato sia sempre in agguato. Tanto più in una società che oggettivamente invecchia e nella quale per tanti il tempo che fu rappresenta un ricordo glorioso, anche grazie alle dovute rimozioni delle fatiche attraversate.
Ormai da alcuni decenni, a livello ecclesiale, si riflette sul ruolo dei laici. Il grande input giunse negli anni Sessanta del secolo scorso dal Concilio Vaticano II. Fu una stagione di luce e non è un caso che proprio in quel periodo gli italiani espressero il migliore indice di natalità. Il boom economico, la ripartenza dopo due conflitti mondiali e il desiderio di futuro alimentarono speranze, raffreddate in breve tempo dagli «anni di piombo» e da una progressiva perdita del legame sociale.
Oggi il ruolo dei laici è fondamentale e si gioca attorno ad alcune sfide che in modo incompleto provo a segnalare. In primis va superato un certo clericalismo non sempre alimentato dai preti. Questo è un problema culturale che nel concreto crea, in certe situazioni, una sorta di panico o comunque timore infondato laddove non si scorge la presenza centrale del sacerdote. L’altro volto del clericalismo lo si coglie nei processi decisionali, quando i laici non si sentono parte attiva delle scelte da compiere. Da un lato emergono ancora posizioni di autoritarismo di certi parroci, ma il vero problema da affrontare è soprattutto la mancanza di strumenti per un discernimento comunitario.
Vi è poi il nodo delle strutture ecclesiali, sorte in stagioni diverse dall’attuale. Possono diventare, in certi casi, un’opportunità abitativa o lavorativa. In questo momento abbiamo più strutture del necessario. Però ripensare l’uso dei locali chiede anche di affrontare questioni economiche non marginali. La cosa bella è che da più parti ci si sta muovendo in questa direzione, ma nel concreto si denota ancora la distanza tra sogno e realtà.
Come raccontare il Vangelo agli uomini del nostro tempo? Ai ragazzi, ai giovani, agli sposi, a chi vive le fatiche dei giorni? Questo è il desiderio di tante persone che incontro. Rimango edificato dalla profonda motivazione spirituale di uomini e donne che cercano di vivere secondo lo stile del Vangelo. Abbiamo molteplici opere di carità e di assistenza ai più fragili che sono sorte negli anni grazie alla passione di cristiani abitati dal desiderio di dare concretezza alla Parola ascoltata.
Tra i laici, alcuni sentono la chiamata all’impegno socio-politico e con coraggio si giocano per rendere più bella la loro città. Non è un compito facile, ma ho visto tante brave persone impegnate in questo ambito che chiede tempo, intelligenza e un sano distacco dal potere. Ciò che non deve accadere è che le comunità generatrici dei cristiani impegnati in politica guardino con diffidenza coloro che si prestano a un tale servizio. «Spesso mi sento un po’ solo», è un’espressione che risuona con regolarità in incontri con i politici.
Qual è il grande compito del laicato oggi? Prendo a prestito le parole di Christian Bobin: «Prendersi cura della solitudine dell’altro, senza mai pretendere di colmarla». Abbiamo bisogno gli uni degli altri, questo è il senso della comunità. Prima di preoccuparci dei ruoli da svolgere, prima di perderci nelle strategie organizzative, prima ancora di pensare a quali parole dire per rendere efficace l’opera evangelizzatrice, c’è un prima ed è la sfida del partire dai volti. L’altro che incontro è storia da ascoltare con rispetto, è storia sacra cui fare spazio. Il suo volto cela una vita che non posso colmare, però mi è dato di mettermi accanto a lui e fare un cammino su questa terra. Abitare la terra senza calpestarla è compito di tutti e di una Chiesa che costruisce relazioni delicate. Una Chiesa che accetta di essere inattuale rispetto ai paradigmi efficentisti e che sa rallentare e aspettare anche chi ha il passo più lento.
Così siano anche gli impegnati in politica che si riconoscono nel messaggio cristiano: persone umili che ascoltano i bisogni del nostro tempo e abbiano la forza di ricucire laddove l’arroganza ha strappato ogni legame sociale.
Dire «benvenuto futuro» è anche saper partire da laici che costruiscono comunità fondate sul Vangelo e quindi sull’ascolto dei volti.