«Gustare la vita, curare le relazioni: con questo titolo – mai come oggi, in tempo di pandemia, allusivo e simbolico – il XXII Convegno nazionale di Pastorale della Salute della Cei giunto alle Sessioni plenarie che si svolgono a Milano-Pero, affronta questioni che attraversano la vita di tutti, non certo solo di chi lavora in questo comparto.
La sessione plenaria 1, moderata da Gianni Cervellera, coordinatore scientifico del Convegno, presente don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della CEI e dedicata a «La questione e il buono delle relazioni» parte proprio dalla condivisione di questo tema, approfondita attraverso la preghiera e la riflessione di monsignor Paolo Martinelli, vescovo ausiliare, vicario episcopale e delegato regionale Cel per la Salute. «Viviamo tutti con gli stessi timori, paure, siamo sulla stessa barca, ma come curare la vita senza che a guidarci sia l’affanno del momento presente?», si chiede il vescovo in riferimento alla pagina, appena proclamata, del Vangelo di Matteo, nella quale Gesù invita a guardare alla bellezza delle cose e della creazione, senza preoccuparsi di tanti altri affanni.
«La fiducia e l’abbandono in Dio paiono condizione per relazioni buone tra noi, sapendo di essere voluti e amati. Come dice Gesù l’affanno per il domani è questione dei pagani. La pandemia ha messo in evidenza il nostro limite: abbiamo sperimentato lo scandalo dell’imprevisto e dell’imprevedibile e si è rivelata la nostra radicale fatica ad accettare che siamo creature mortali. Ma tutta la tecnoscienza che abbiamo prodotto, essere diventati sempre più orgogliosamente l’esperimento di noi stessi, non ha spostato nemmeno di un millimetro la condizione umana della finitudine. La fatica del momento presente ha rivelato che, nella nostra cultura, manca il senso della provvidenza, perché manca il senso della storia. E questo ci apre a un lavoro più potente sul dramma di una coscienza isolata».
Che fare, dunque? «Riconoscere la mano provvidente di Dio che fonda una responsabilità che ci rende compagni di ogni uomo e ogni donna. L’abbandonarci alla provvidenza ci apre a una ricerca del Regno di Dio libera dall’affanno e dall’esito. Cercarlo è cercare il vero senso delle cose, il senso di una vita condivisa – dentro la cura di persone malate – e la giustizia di relazioni autentiche, fraterne libere dal ricatto. Esprimiamo in questo modo la dignità di ciascuno. Cercare il Regno è riconoscere Cristo nel volto del fratello e della sorella di cui siamo chiamati a prenderci cura. Nasce cosi, grazie al dono dello Spirito del risorto, un nuovo gusto che dà sapore alla vita. La vittoria sulla morte, che la fede celebra, ci fa appassionare agli altri con un amore, appunto, più forte della morte».
Parole cui fa eco monsignor Stefano Russo, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana. «Dopo la vista e il tatto negli anni scorsi, il protagonista di questo convegno è il gusto. Perdere quello della vita, essere preda dell’apatia, sprofondare nella malinconia, è una delle cose più terribili. Come abbiamo visto questo anno, la solitudine di chi ha perso la speranza, degli anziani nelle Rsa, dei malati nelle stanze di ospedale, colpisce al cuore. Abbiamo imparato che la tecnologia è utile, ma non sostituisce la relazione perché solo questa cura. Le relazione autentica è sempre di reciprocità, di aiuto. La cura, per essere veramente tale, si riconosce dallo sguardo di un cuore compassionevole Curare le relazioni è anche un preciso compito pastorale».
Poi, i vertici delle Istituzioni locali con il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana: «Mai come in questo anno abbiamo compreso l’importanza della vicinanza umana e spirituale. Gli operatori della sanità, sono stati messi a dura prova», dice ricordando il percorso formativo, appunto, per questi operatori promosso, dal 2019, dalla Diocesi e dalla Regione. «Una valutazione si impone di certo sul nostro sistema di cura e sul rapporto tra la sofferenza e la spiritualità».
È la volta di monsignor Carlo Maria Redaelli, sacerdote ambrosiano, arcivescovo di Gorizia, presidente della Commissione Episcopale Carità e Salute della Cei: «La cura della salute è molto più ampia della pandemia, anche se ormai questo è diventato una questione monotematica. Vi è quindi la necessità, nel Covid e in ogni situazione di fragilità, di recuperare la relazione fondamentale con il Signore e tra di noi. Ringrazio i Cappellani ospedalieri, che hanno cercato di essere segno della presenza del Signore e della comunità cristiana, e i medici. Come ci sono dei corsi per chi ha perso il senso del gusto causa Covid, anche noi dovremmo promuovere dei corsi per ricuperare vicinanza e accoglienza. Questa è la priorità pastorale della salute che dobbiamo realizzare. Occorre dire che è importante avere centri specialistici, ma è decisiva una pastorale della salute di base garantita nelle comunità».
Il sindaco di Milano Beppe Sala, da parte sua, scandisce: «L’incredibile contributo e la generosità degli operatori pastorali impreziosiscono la società. Come sindaco vi ringrazio. Milano non è crollata grazie all’anima ambrosiana: oggi i sentimenti di Gesù e di Ambrogio rivivono nell’assistenza. Anche il poco, se donato con amore, non si esaurisce mai, e costruisce una società più giusta e sana. La condivisione di un destino comune, mettendo al centro al cura, è la direzione per disegnare un futuro più equo».
In cinque passi «per accendere la riflessione e i sensi», si articola la comunicazione del vicario episcopale di settore, monsignor Luca Bressan. È lui che parla, attraverso slides e l’icona evangelica del Buon Samaritano, «del senso del gusto che è un sensore di pienezza, come scriveva Claude Lévi-Strauss». Infatti, attraverso la maturazione del gusto abbiamo, come uomini, voluto dire molto di più, passando, per esempio in tema di cibo, dalla carne cruda alla raffinatezza delle cucine moderne»
Ma, in un momento in cui si vive il contrario della pienezza, come in pandemia, cosa è il gusto? Soprattutto considerando «un sistema culturale che aveva tentato di cancellare il limite», come dare un senso ora che il limite si è riproposto con drammaticità?.
«Tutti ci siamo impegnati, ma il primo strumento che abbiamo acceso di fronte alla pandemia è stato accettare la logica del male, la separazione, la chiusura, così ci siamo accorti che questa vita non è una vita. Abbiamo affinato molti strumenti – in pochi mesi è arrivato il vaccino -, ma non basta: occorre riconoscerci come persone e sentirci popolo».
Evidente la verità di tutto questo in campo medico: «Abbiamo separato la malattia dal malato – non a caso, la legge 219 del 2017 crea la figura del fiduciario che si interpone tra medico e paziente -, mentre nel momento del dolore, la cosa di cui vi è più bisogno è un legame di fiducia tra il medico e il suo paziente», come, peraltro, diceva già Aristotele). L’esempio di santa Teresa di Calcutta e delle sue sorelle con il loro servizio per i più poveri tra i poveri offerto solo per amore, è lampante.
Da cristiani – il richiamo è alla pagina di Luca 7 con il dialogo tra Gesù e il fariseo e al Noli me tangere – bisogna «riflettere su come il sensore di pienezza sia la capacità che abbiamo di vivere in pienezza i Sacramenti, a partire dall’Eucaristia. Basti pensare che il sacramento della riconciliazione era detto Medicina salutis. Gustare la vita è avere spazio per una parola che apre e libera noi e, quindi, altri; è avere il coraggio di dire che abbiamo un amore che attraversa la morte. Il nostro compito è predicare la risurrezione in questo contesto di morte e dobbiamo aiutare la gente a capire che possiamo trovarci in comunione, anche tra fedi diverse, perché il momento della ferita ci permette di vedere la domanda base, “Di chi sono? A chi appartengo?”. La vicinanza permette di dire il riconoscimento e di costruire comunione».