Incursioni di “bande”, fenomeni di violenza, vandalismo. Purtroppo non è raro che episodi spiacevoli di questo tipo interessino gli oratori, soprattutto se si trovano in contesti sociali difficili, e in alcuni casi è capitato che hanno portato alla chiusura dell’oratorio. La decisione più sofferta per un sacerdote. Preoccupati per questa situazione, alcuni parroci della periferia di Milano si sono riuniti per due anni, tra il 2016 e il 2018, per confrontarsi. Ne è nato il cammino «Parrocchie e periferie», i cui esiti sono oggi raccolti nel volume Essere Chiesa di frontiera, appena uscito per Centro ambrosiano (vedi il box qui sotto). Ne abbiamo parlato con il direttore della Fom don Stefano Guidi.
Quale richiesta emerge dagli incontri dei parroci di periferia tra 2016 e 2018?
A partire da alcune situazioni che avevano sfibrato le comunità – portando in qualche caso alla chiusura fisica dell’oratorio, eccetto che per la catechesi -, i parroci hanno espresso una richiesta di aiuto all’Arcivescovo, il quale ha deciso di dedicare la quota dell’8×1000 riservata alla carità del vescovo per un intervento negli oratori più colpiti. Il progetto «Parrocchie e periferie», che prevede l’invio di due educatori professionali negli oratori, è quindi partito in quattro realtà. Ci siamo concentrati sulla singola parrocchia in due casi, San Michele e Santa Rita al Corvetto e Sant’Eugenio in Calvairate, mentre negli altri due casi, Santa Lucia a Quarto Oggiaro e Sant’Anselmo a Baggio, abbiamo lavorato con uno sguardo a tutto il Decanato.
Com’è stata accolta da educatori la presenza degli educatori professionali?
Uno dei punti qualificanti del progetto è stato il coinvolgimento di tutta la comunità educante locale, per permetterle di riprendere una vita quotidiana soddisfacente e di migliorare il dialogo con il quartiere. Gli educatori professionali non si dovevano sostituire alla comunità, ma fare in modo di riattivarla, facendole anche riacquistare la fiducia in se stessa. C’è un importante lavoro di creazione di fiducia reciproca tra educatori locali e professionali, che ha scongiurato il rischio, possibile, che gli educatori professionali fossero accolti con la diffidenza che accompagna spesso l’esperto «piovuto dall’alto». Si è creata, al contrario, una grande intesa.
Come ha reagito invece il territorio? È stata sorpresa? Rifiuto?
La reazione dei quartieri in generale è stata molto positiva, in alcuni casi di sorpresa e di scoperta della parrocchia. Grazie alla presenza degli educatori professionali, la parrocchia ha potuto tornare ad abitare gli spazi e i momenti associativi del quartiere con maggiore assiduità. D’altra parte, l’oratorio è stato in grado di riaprire, in alcuni casi fisicamente, o comunque di aprirsi maggiormente al quartiere. Ed è chiaro che un oratorio aperto è più in grado di entrare in relazione con il disagio e di tentare di contrastarlo. Ovviamente, certi fenomeni giovanili non possono essere risolti dagli oratori, richiedendo un’attenzione politica e sociale complessiva. Ma un oratorio aperto è una voce indispensabile in più, che si aggiunge a richiamare l’importanza dell’emergenza educativa. Oratorio e associazionismo sono una goccia nell’oceano, ma offrono belle possibilità.
Quali sono i frutti pastorali di questo progetto?
La bellezza di questo progetto è che, nel momento in cui lo realizzavamo, ci siamo accorti che ci consegnava anche un sapere nuovo rispetto alla vita delle parrocchie nella periferia. «Parrocchie e periferie», nato da un’esigenza concreta, è diventato anche un progetto di studio, perché ci ha permesso di entrare nella periferia e di conoscerla in modo meno superficiale, di capirla di più nell’oggi, nel mezzo dei grandi cambiamenti a cui Milano è sottoposta. Il progetto ci ha dato la possibilità di riflettere sul senso di essere Chiesa nella città. Riflessione nella quale siamo stati aiutati da don Mattia Colombo, docente di Teologia pastorale in Facoltà teologica e in Seminario, con un dottorato proprio sulla pastorale urbana, che ha firmato una parte importante del volume Essere Chiesa di frontiera. E il fatto, casuale, che questo testo esca praticamente in concomitanza con la Lettera dell’Arcivescovo alla città, è molto significativo.