Sono oratori dalle porte aperte, quelli raccontati nella ricerca promossa dalla Fom, presentata mercoledì scorso alla Fondazione Ambrosianeum (leggi qui), per «tastare il polso» di questi luoghi, tipicamente ambrosiani, in cui la Chiesa si prende cura dei più piccoli. E soprattutto per capire come, ancora oggi, gli oratori sappiano dialogare con la società e porsi al servizio di una città in costante mutamento.
La loro presenza capillare – se ne contano 146 nei dodici Decanati di Milano (il territorio preso in considerazione dalla ricerca) – ne fa potenzialmente un punto di riferimento per tutti i bambini e i ragazzi che vivono in città. E se «gli oratori sono i sensori della comunità cristiana sul territorio», come sintetizza don Stefano Guidi, direttore della Fom, questa posizione privilegiata rilancia la domanda su come proprio gli oratori possano essere un luogo di crescita. «Uno spazio di incontro libero, dove i più piccoli si sentono in qualche modo protetti, e che – sottolinea ancora don Guidi – è sottratto alla richiesta di prestazione».
Tanti gli spunti di riflessione, a partire da una considerazione strettamente geografica. Spesso, in periferia, ma non solo, l’oratorio è uno dei pochi, se non l’unico, contesto di aggregazione. Ci sono poi i nuovi «pezzi» di città: una Milano che cresce rapidamente (su tutti l’esempio del nuovo quartiere di Cascina Merlata), ma che forse, osserva il direttore della Fom, «non considera adeguatamente il bisogno di spazi dedicati alla socialità». Come essere presente in questi nuovi quartieri è una riflessione in corso nella stessa Chiesa ambrosiana. La forma classica della parrocchia prevede una struttura e una serie di attività ben definite. Ma, ipotizza don Guidi, «si potrebbe pensare anche ad altre forme di presenza ecclesiale», a maggior ragione in quei contesti in cui «la forte mobilità delle persone rende più difficile lavorare su una dimensione di comunità, ma in cui non è meno importante che le persone si incontrino e creino legami». Significa che «tra le dimensioni che la ricerca ha messo in luce come caratteristiche degli oratori – condivisione, comunità, coprotagonismo, convivialità – si potrebbe investire soprattutto sull’aspetto della convivialità», spiega don Guidi: «Proprio le tante occasioni di incontro e convivialità che caratterizzano la vita degli oratori rappresentano anche una risposta a un bisogno di relazione che è fortissimo, e che l’esperienza del Covid ci ha fatto vedere ancora più chiaramente».
Bisogni e risposte che, naturalmente, non si possono circoscrivere a una sola categoria, o a una fascia d’età. Tanto che si spazia dalla voglia di gioco dei più piccoli, senza che ci sia la barriera di una tessera o di una quota di iscrizione, al desiderio dei più grandi di vivere occasioni di scambio autentico con i coetanei.
Dunque, tira le fila don Guidi, l’oratorio continua a essere uno spazio di relazione: «Sempre più dovremo investire su questo aspetto, piuttosto che sull’offrire servizi – sottolinea -. Dovremo, cioè, chiederci se quello che facciamo ci permette di costruire legami significativi».
Resta, naturalmente, la specificità di quest’ambiente, sottolineata anche recentemente dall’Arcivescovo, nella Messa degli oratori celebrata in Duomo. «Essere un luogo aperto a tutti e, allo stesso tempo, un’esperienza in cui, proprio dalla convivenza tra “diversi”, cresce l’identità cristiana di chi lo frequenta, è una scommessa affascinante», riconosce don Guidi, che legge questa tensione tra apertura e identità come «un tratto caratteristico», quasi costitutivo degli oratori; un tratto che chiama dunque sempre a un nuovo equilibrio nel pensare e «progettare» l’esperienza con i ragazzi. «È qualcosa – conclude – che richiede tutto il nostro impegno e la nostra passione. Ma è anche qualcosa di straordinario che solo il Vangelo può produrre».