Alberto Guariso quasi si giustifica spiegando che il suo look – «ho la barba, non mi vesto in modo particolarmente elegante» (in realtà si limita a non indossare la cravatta) – lo colloca tra chi era giovane quando c’erano ancora le battaglie sindacali ai cancelli delle fabbriche. Guariso è un avvocato, si occupa di diritto del lavoro e ultimamente (anche attraverso la onlus Avvocati per niente) sempre più di diritto antidiscriminatorio, ovvero lavora perché l’accesso ai diritti civili e sociali sia garantito a tutti, compresi gli immigrati.
Una situazione, quella di oggi, rispetto agli stranieri, diversa dal clima degli anni Settanta, di cui Guariso ricorda «le marce di Mani Tese», insieme al forte impulso missionario che animava la Chiesa. «Ma anche oggi dal mio studio – racconta – passano molti giovani che, nonostante la presunta freddezza della professione giuridica, sono animati da uno spirito di difesa degli ultimi, dall’idea che la pratica professionale possa coincidere anche con l’impegno sociale».
Che ideali animavano i giovani e i giovani cattolici? Quali erano le istanze più calde?
Sicuramente era più semplice impegnarsi. Nell’area cattolico-popolare in cui potrei collocarmi c’era una propensione quasi naturale all’impegno su alcune tematiche, a partire da quelle che potremmo chiamare terzomondiste, nella Chiesa c’era una spinta universalistica. L’attenzione al mondo degli stranieri che oggi c’è nelle parrocchie viene sicuramente da quella vocazione di afflato universalistico. Certo, ora questo slancio è forse più rivolto all’assistenza dal basso, all’aiuto concreto degli sportelli Caritas, che hanno comunque una funzione importantissima, perché anche qui si fa esperienza dello straniero, si superano gli steccati.
C’era poi l’aspetto dei diritti legati al lavoro…
Prima di passare alla professione legale, sono stato per diversi anni nel sindacato. In quel periodo (tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta) la Cisl era veramente una fucina di idee, passioni, interessi generali. Un’esperienza veramente importante che purtroppo oggi non attira più.
I giovani ora non hanno una propensione all’impegno…
Prima sembrava che ci fosse quasi un canale naturale che portava verso l’esterno, mentre ora è l’opposto, ci si occupa prima di sé e della propria professione. Noi eravamo aiutati dal contesto e c’era forse troppa omogeneizzazione, ma gli esiti erano positivi. Però eravamo anche molto identificati, avevamo una sola identità nel modo di atteggiarci, di ragionare e anche di vestire. Invece i giovani di oggi hanno molte facce, non hanno il problema di essere qualificati sotto un’unica etichetta. Ora che i modelli non hanno più la forza del passato e che gli scambi sono maggiori, si è immersi in una società plurale, c’è la possibilità di avere molti più rapporti con persone di culture (non solo geografiche) diverse: una ricchezza che noi non avevamo. Immagino che i miei figli, quando escono alla sera, parlino anche di politica, di società, di Chiesa. Non so però se questa opportunità di dialogo e di scambio venga sfruttata pienamente.
Certo ci sono molti giovani che si impegnano, ma questo impegno, a differenza che in passato, resta forse solo uno spicchio della loro vita…
Manca forse una visione generale. Dal mio punto di osservazione credo però che un impegno collettivo stia tornando sul tema dell’immigrazione, nel diffondere una cultura capace di ridurre il peso del confine. L’importante è partire da forti esperienze di socialità dal basso, senza chiudersi su se stessi per rivendicare una cosuccia di quartiere, ma cercando di avere un respiro politico, più ampio. Su questa sfida secondo me i giovani di oggi ci stanno, o ci starebbero tantissimo.