«È compito mio». Compito mio rimanere: per curare, provare a guarire, dare continuità alle scuole, costruire speranza in una terra calpestata dalla violenza. Nonostante le minacce, tangibili e celate ai collaboratori. Nonostante un’ombra di morte, che si sarebbe materializzata puntuale, di lì a pochi giorni.
Con tre parole dense di coraggio, intrise di responsabilità, non prive di angoscia, Graziella Fumagalli chiudeva la sua ultima telefonata alla parente suor Aralda, “madre spirituale” e confidente da una vita, una settimana prima di venire brutalmente uccisa a Merca, Somalia centro-meridionale, dove da un anno e mezzo dirigeva per conto di Caritas Italiana un apprezzato (dalle autorità sanitarie internazionali, oltre che dalla popolazione locale) Centro antitubercolosi. A suor Aralda, distante migliaia di chilometri, Graziella aveva rivelato di essere destinataria di intimidazioni pressanti. «Sono tornati», le aveva detto: e sarebbero tornati di nuovo, la domenica successiva, per colpirla a morte, con freddezza, con due colpi di pistola alla testa. Mentre visitava un malato, a metà mattina, nella domenica che i cristiani di tutto il mondo dedicano alla preghiera per i missionari. Era il 22 ottobre 1995.
A 25 anni di distanza, la figura della dottoressa brianzola non smette di incutere rispetto e commozione in chi abbia l’occasione di andare oltre la scorza di riservatezza in cui la stessa Graziella aveva avvolto la sua parabola umana, professionale, caritativa, spirituale. Famiglia operaia, operaia lei stessa fino alla soglia dei 20 anni, poi tuttofare per mantenersi agli studi liceali e universitari ripresi in età adulta con uno scopo ben preciso (diventare medico per l’Africa), protagonista di un lungo periodo di alta specializzazione in Francia, Graziella era partita per la mèta che si era data solo all’età di 45 anni. Guinea Bissau con Mani Tese, Mozambico con Aispo, Somalia con Caritas: le tappe di un servizio da cooperante tutto sommato breve, ma percorso con determinazione e dedizione assolute, con una competenza riconosciutale da tutti, con un carisma silenzioso, impreziosito da un sorriso mai domo e animato da una fede gelosamente custodita.
La morte di Graziella, ha dichiarato monsignor Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Mogadiscio e vescovo di Gibuti, è avvenuta «nella linea del martirio». Martire di un Vangelo che non aveva potuto, e non riteneva di annunciare a parole. Ma testimoniandolo nel servizio quotidiano, a fianco degli ultimi, in situazioni di minaccia estrema alla dignità degli uomini. «Glorificate Dio con le vostre opere», era la formula liturgica che costituiva la sua preghiera preferita: una sorta di programma di vita.
Graziella era figlia della Diocesi ambrosiana. Casatenovo, suo paese natale, provincia e Zona pastorale di Lecco, l’ha ricordata domenica 25 ottobre, di nuovo Giornata missionaria mondiale, con una sobria, ma accorata celebrazione voluta da parrocchia e comune. La messa, un video, il calco di una statua regalato ai fratelli: erano presenti autorità religiose e civili, parenti, amici che ne tengono viva la memoria. Caritas Ambrosiana era rappresentata dal direttore, Luciano Gualzetti. Caritas Italiana le aveva dedicato, nell’anniversario della morte, un partecipato webinar sulla situazione attuale della Somalia.
Era compito suo, e lei non disertò. I motivi per cui fu uccisa (odio di integralisti islamici, mire sull’ospedale, tentativi di estorsione respinti, volontà di allontanare testimoni scomodi dai traffici loschi del vicino porto) rimangono indeterminati, così come esecutori e mandanti del delitto. Lo rimarranno probabilmente per sempre, la Somalia continua a essere terra di sanguinose opacità. Su quel terreno, però, Graziella «passò sanando e beneficando, disse il cardinale Martini ai suoi funerali. Gettando semi di amore, che la violenza non può cancellare davvero.