L’Arcivescovo, nel suo Discorso alla Città, parla del coraggio che ci si può dare, ma anche di una paura che è come un’epidemia nella città. «Mi pare che questo tema, in particolare a Milano, sia molto sentito, soprattutto dalle nuove generazioni», spiega Elena Granata, docente di Urbanistica presso il Politecnico di Milano ed esperta interprete della realtà metropolitana, che aggiunge: «Durante la prima lezione ho proposto ai miei studenti un test, domandando quale fosse l’emergenza più immediata che sentivano per la loro generazione. La risposta è stata la sicurezza e l’incolumità. Quindi il problema c’è ed è molto sentito. Di questo dobbiamo tenere conto. L’invito del Vescovo, che è molto bello, è un invito a guardare la realtà con tenerezza, con amore, per trovare le soluzioni al fine di rendere questa nostra comunità più abitabile. Un invito al coraggio».
E anche alla responsabilità degli adulti, nel contesto di quella che monsignor Delpini chiama la percezione della vita come vocazione, specie per i giovani…
Vocazione è un termine molto bello: l’essere vocati, chiamati a qualcosa. Questo dovrebbe essere la base di ogni insegnamento e apprendimento, suscitando nei giovani soprattutto il desiderio di diventare qualcosa, qualcuno. Oggi mancano figure che, nello spazio pubblico, siano portatrici di un racconto positivo che vuol dire che è bello ingaggiare una sfida con se stessi, sacrificare la propria vita per un ideale. Sono sempre meno gli adulti in grado di raccontare la bellezza di essere chiamati.
L’Arcivescovo dice, ovviamente, che sulla terra ci sono il bene e il male, ma indica il compito di «coltivare una pratica di fiducia», come recita il sottotitolo del Discorso. Come farlo?
È una questione di visione. Un adulto consapevole, maturo, un genitore responsabile, è colui che vede i problemi nella loro asperità, non negando tale dimensione problematica ai propri figli, ma che non rinuncia, al contempo, a un racconto positivo e di speranza. Penso che l’Arcivescovo abbia voluto utilizzare le parole che userebbe un padre che, in famiglia, ai figli, dice di guardare più in là, di alzare lo sguardo e di vedere quanto bene c’è già nelle nostre città, anche se non riusciamo né a scorgerlo, né a raccontarlo.
Fiducia, coraggio e speranza: queste le virtù e il dovere di chi fa sua la responsabilità. Che cosa serve di più nella logica della solidarietà e sussidiarietà?
Mi sembra che siano tutte parole per dire un vitalismo che manca oggi nella realtà che viviamo. Quando parliamo di adulti “sonnambuli”, di tristezza, di depressione collettiva, facciamo riferimento a uno slancio vitale che non pare sussistere nelle nostre comunità. Talvolta è mancanza di fiducia, talvolta di coraggio, talvolta mancanza di speranza. Se prevalgono lo scoramento e la depressione, i problemi sembrano tutti irrisolvibili e insolubili, dilaga la depressione: ma si deve andare oltre. Questo forse è il punto da sottolineare.
L’Arcivescovo parla delle guerre, delle migrazioni, della possibilità data a ognuno di portare il proprio contributo per migliorare le cose. Anche esercitando un dovere come quello di partecipare al voto per le elezioni europee della prossima primavera. Pensa che questa mancanza di slancio vitale possa essere evidenziata, a livello giovanile, anche nel non impegnarsi nella cosa pubblica, nel non andare a votare?
Vorrei solo evidenziare che abbiamo a portata di mano due soluzioni pratiche su tali problematiche. Anzitutto, il voto per i fuori sede già in occasione delle prossime Europee: far votare gli studenti che studiano a Milano, ma che sono residenti al sud e non possono permettersi di tornare ai loro paesi di origine solo per votare, è fondamentale. E, poi, come stanno facendo tante nazioni europee, concedere il voto ai sedicenni in occasione delle prossime elezioni. Questi due strumenti sarebbero già da soli bastevoli. Spesso mettiamo davanti ai giovani dei bastioni insormontabili: proviamo, invece, a rimuovere le cause che impediscono di votare e saremo sorpresi dalla loro capacità di risposta. I ragazzi che abbiamo visto in piazza per la morte di Giulia, che non ricordavamo più neanche di avere, raccontano che loro ci sono.