Sin dalla sua nomina Giovanni Paolo II ha sempre avuto un’attenzione viva alla pace e ai temi internazionali. Non ha avuto paura di parlare in Polonia, nel cuore del mondo comunista, al gigante sovietico, accompagnandone la disgregazione.
di Riccardo Moro
Il Vangelo della prossima domenica, la prima in cui i cristiani italiani si troveranno nelle loro comunità dopo i funerali del Papa, propone l’episodio dei discepoli di Emmaus. Ci si immedesima facilmente in questi due uomini che camminano parlando vivacemente, dapprima fra loro e poi con Gesù stesso, risorto, che non riconoscono. Esprimono le loro emozioni, le speranze che hanno nutrito e i dubbi che l’annuncio della tomba vuota ha suscitato dentro di loro. Gesù cammina con loro e spiega. Li rimprovera: «Stolti e tardi di cuore», ma ascolta il loro turbamento e condivide il loro cammino.
Èa questo atteggiamento di condivisione dolce, a questo camminare insieme, che suscita la richiesta così naturale «resta con noi ora che si fa sera», che si ispirò il Concilio redigendo la Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». I discepoli del Cristo apprendono da Lui a camminare insieme agli altri uomini, come Lui ha fatto con loro.
Il brano dei discepoli di Emmaus richiama a pochi giorni dalla morte del Papa, in una gradevole e non costruita coincidenza, l’impegno della Chiesa per la pace, uno degli elementi che hanno caratterizzato maggiormente il papato di Giovanni Paolo II. Tra le speranze dei discepoli vi era la liberazione di Israele, una prospettiva politica ben chiara. Ma le parole di Cristo spostano l’orizzonte, il suo spezzare il pane costruisce relazioni, non divide. E quando scompare ai loro occhi, nell’esatto momento in cui lo riconoscono, essi partono «senza indugio». Fanno «ritorno a Gerusalemme» a raccontare che lo avevano visto e a spiegare ciò che avevano finalmente capito. E proprio durante quel racconto Gesù appare di nuovo e li saluta, dicendo «Pace a voi».
Sin dalla sua nomina Giovanni Paolo II ha sempre avuto un’attenzione viva alla pace e ai temi internazionali. Non ha avuto paura di parlare in Polonia, nel cuore del mondo comunista, al gigante sovietico, accompagnandone la disgregazione. Negli anni successivi, via via che veniva meno il paradossale equilibrio fra i blocchi, ha profuso un instancabile impegno denunciando le guerre dimenticate e tutte le situazioni di conflitto del pianeta. Ancora pochi mesi fa, ha denunciato il silenzio intorno alla drammatica crisi del Darfur, ignorata dai grandi attori della politica internazionale. Nelle grandi crisi internazionali ha alzato la sua voce perché non la violenza venisse usata per risolvere i conflitti, ma la politica e il negoziato. Gravemente malato negli ultimi anni è stata la voce più alta che ha parlato in difesa di chi avrebbe subito la guerra e ha denunciato con forza l’illegittimità della “dottrina” della guerra preventiva. Ha ricordato che le vittime della guerra sono i più poveri, gli ultimi, e sempre ha manifestato il suo dolore per le lacerazioni della Palestina.
Lo ha fatto con mille discorsi, viaggi e visite ufficiali. Proprio in questo vi è un carattere notevole del suo insegnamento. Giovanni Paolo II ha parlato davanti all’assemblea delle Nazioni Unite e davanti ai Parlamenti, ma non lo ha mai fatto come un personaggio politico. Ha sempre mantenuto il suo ruolo di pastore che invita, accalorato, a riconoscere che la pace è possibile nella costruzione della civiltà dell’amore, ma sollecita cittadini e rappresentanti ad assumere ognuno la propria responsabilità per individuare le soluzioni concrete per costruirla. Questi caratteri si trovano in quella che forse è una delle più belle eredità che ci lascia, cioè l’insieme dei messaggi per la Giornata mondiale per la pace, che Paolo VI volle fosse celebrata ogni anno il 1° gennaio, il cui corpus, come dice lo stesso Wojtyla, costituisce «un sillabario», «una grammatica» della pace per l’intera comunità internazionale.
Sono rivolti ora ai politici ora agli educatori, ora agli esperti di diritto internazionale ora a tutti i cittadini. «Non c’è pace senza giustizia non c’è giustizia senza perdono», «se la pace è possibile allora è anche un dovere» sono solo due dei passaggi più celebri. Da tutti emerge l’urgenza di assumersi responsabilità, come quando parlò ai giovani di Tor Vergata: «Vedo in voi le sentinelle del mattino… Voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti». Forse questo è uno degli insegnamenti più pregnanti di questo grande Papa: sperimentare la fatica di coniugare la chiamata all’amore nella politica e nella costruzione della comunità è responsabilità urgente di ognuno di noi. Occorre ritornare a Gerusalemme, come i discepoli di Emmaus. Senza indugi.