Il Sinodo indetto dall’arcivescovo Delpini ha innescato un processo che sta facendo incontrare persone diverse, nei luoghi della quotidianità, per scambiarsi esperienze e sogni sul futuro della Chiesa.
Mi capita di incontrare migranti e giovani – due categorie molto affini tra loro perché si stancano se non camminano – che coltivano uno sguardo aperto a cogliere nei problemi le sfide che riaprono l’orizzonte; nelle fatiche, le doglie del parto di un mondo capace ancora di umanità; nelle ferite, le feritoie che possono generare vita nuova non solo per chi è accolto, ma anche per chi accoglie.
Ascoltandoli, ricevo spesso questo messaggio: coloro che si trovano a varcare i confini non sono un problema, bensì “avamposti del futuro”. L’esilio, qualunque sia la sua forma, può essere incubazione di azioni creative, il focolaio del nuovo. E forse per questo nell’esiliato si vede spesso una minaccia: egli rovescia ciò che è abituale. Ma se questo processo è attraversato positivamente, allora può sorgere qualcosa di creativamente nuovo per tutti.
A ciò vuole contribuire il percorso sinodale, edificando la cattolicità della Chiesa, il suo essere ab origine “Chiesa dalle genti”: la Chiesa della pentecoste, popolo di popoli in cammino, comunione nella diversità. Il metodo sinodale invita a pensare e ad agire insieme cogliendo i segni della presenza di Dio nell’umanità gravida della Pasqua.
Sono in particolare i giovani, esuli del senso, ad avere a cuore il desiderio di superare forme e linguaggi divenuti inadeguati rispetto alla vita. «La presenza di persone che emigrano – dicono – ci apre finestre su questioni che vanno affrontate»: si tratta di ripensare il proprio essere ‘civili’ sulla base non tanto della sicurezza per alcuni, ma della capacità di prendersi cura della comune aspirazione a un futuro vivibile per tutti.
Certamente, il Sinodo costituisce un momento prezioso per la Chiesa, ma il suo valore si allarga: in un tempo in cui il benessere produce nella metropoli tante forme di solitudine e depressione, mentre la deprivazione delle periferie (geografiche e esistenziali) produce disperazione nelle notti di un’umanità che fatica a ritrovare se stessa, forse ci si salverà dai muri e dalla violenza attraverso l’ascolto reciproco e la condivisione.
Giovani e migranti dicono di «sentirsi a casa in una Chiesa che ascolta, cammina “con” e sta nella realtà»; «vorremmo che la Chiesa non fosse un club di amici, ma aperta a correre il rischio dell’incontro» così da «esprimere la dimensione fraterna del Vangelo» in cui la vita chiama altra vita. A questo desiderio fanno eco le parole di Francesco nell’Evangelii Gaudium: «Sentiamo la sfida di scoprire la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica», che è l’incontro dei popoli, il quale «può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio».