Con un’espressione che forse risultava più efficace qualche anno fa, il curriculum di Franco Monaco si potrebbe facilmente definire quello di un laico impegnato. Classe 1951, giornalista, è stato attivo nell’associazionismo, dall’Azione Cattolica ambrosiana a Città dell’Uomo, associazione fondata da Giuseppe Lazzati; ha proseguito con l’impegno politico, deputato per due mandati e quindi in Senato fino alla scorsa legislatura, anche con scelte in contrasto rispetto a quelle del proprio partito. A lui abbiamo chiesto di raccontare quali motivazioni spingevano i giovani dei primi anni Settanta, durante i quali – racconta – «abbiamo coltivato il sogno di cambiare il mondo». Sono gli stessi anni in cui la Chiesa ambrosiana lanciava la Veglia missionaria, pensata – allora come oggi – per aprire ai giovani una prospettiva universale.
Quali erano le esigenze e motivazioni di voi giovani, lo spirito che vi animava nell’impegno ecclesiale?
La mia è stata una formazione cattolica tradizionale: oratorio, parrocchia, Azione Cattolica. In provincia, non nella grande città. La nostra adolescenza è però anche coincisa con la distensione internazionale, con le speranze dischiuse da papa Giovanni XXIII e da John Kennedy, dalla primavera del Concilio, a cui poi seguì il Sessantotto. Il nostro fu dunque un tempo di apertura universalistica e di fiducia in una Chiesa che, aggiornandosi e riformandosi, potesse concorrere positivamente a cambiare il mondo.
Qual era lo spirito con cui la Chiesa “istituzionale” si rivolgeva ai giovani, e quale quello con cui voi, giovani credenti, vi rivolgevate ai vostri coetanei? Quali erano le istanze più calde?
La Chiesa – il cui volto concreto erano oratori, parrocchie e associazionismo, e ancor più specificamente sacerdoti e laici nostri educatori – ci proponeva un percorso di educazione a una fede adulta e alla vita di comunità. Un percorso esigente, ma anche accessibile a tutti, e che instillava in noi uno spirito di servizio e una concezione della libertà intesa come responsabilità e partecipazione. La domanda di quella generazione (ma a suo modo dei giovani di sempre) era appunto domanda di libertà e di protagonismo. Dunque, compito nostro era vivere e proporre il cristianesimo come esperienza di vita piena e di libertà.
Come vede le generazioni di giovani di oggi rispetto a quella dei suoi anni?
Non conosco abbastanza i giovani di oggi e preferisco evitare generalizzazioni. Certo, i giovani risentono della condizione materiale e dello spirito del tempo, dove c’è incertezza sul futuro e dove mancano punti di riferimento e modelli cui ispirarsi. So solo che grandi e imperdonabili sono le responsabilità, le mancanze della nostra generazione verso le nuove. Non mi riferisco solo a lavoro, previdenza, ambiente. Ma alle ragioni del vivere e del vivere insieme. Ragioni delle quali, noi che ci siamo assunti la responsabilità di “mettere al mondo” i giovani, dovremmo saper rendere conto.
Quali indicazioni o sostegni servirebbero ai giovani, da parte del mondo adulto e della Chiesa, per essere protagonisti?
Mi limito a indicare alcuni “diritti” dei giovani, giustamente diffidenti della proclamazione dei grandi ideali che non siano testimoniati e vissuti nel quotidiano e nei rapporti brevi. I giovani hanno diritto a una Chiesa che non sia sentenziosa e legalistica, ma neppure compiacente e “compagnona”, una Chiesa che indichi loro mete alte e impegnative; e hanno diritto a una politica dotata di visione e responsabile verso il futuro, l’opposto dell’attuale “presentismo”, dell’ossessione per il facile consenso; complessivamente, servono adulti che siano adulti, testimoni ed educatori, non eterni adolescenti.