«Non ho risposte, ma domande, ponendomi anche come voce di Chiesa, espressione dei Cattolici di Milano».Inizia così il suo intervento, l’Arcivescovo, partecipando, per la prima volta, all’incontro con gli operatori della comunicazione che si svolge, come ormai tradizione, presso l’Istituto dei Ciechi di Milano, in occasione della festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti.
La Sala Barozzi è gremita, anche perché il tema su cui si discute è di strettissima attualità e non può non coinvolgere tanti. Infatti, su “Il diritto a essere correttamente informati: i media tra disintermediazione e la sfida per una comunicazione al servizio della verità”, si confrontano, con la moderazione del caporedattore Esteri di “Repubblica”, Daniele Bellasio, professionisti molto noti quali Tiziana Ferrario, volto del Tg1 Rai e Marco Alfieri, caporedattore responsabile web de “Il Sole 24 Ore”.
In avvio della mattinata, dopo l’introduzione di monsignor Davide Milani, responsabile dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi, prende la parola Alessandro Galimberti, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (organismo regionale che raggruppa quasi 1/4 dei comunicatori del Paese). Spiega: «Dobbiamo prestare più attenzione a ciò che diciamo e scriviamo. Ad esempio, sappiamo che Google e Facebook controllano il 75% della pubblicità in rete? Dovremmo ragionare su questo dato che, invece, è passato sotto traccia, anche se mette a rischio non solo la libertà di informazione, ma anche la libertà nel suo complesso. Per i media digitali c’è un processo di deificazione: tutto quello che è percepito come rete è un mantra. Si dice che mancano fatturati e redditi nel comparto editoriale e, finora, si è rimediato con il taglio degli occupati, ma la soluzione per risalire la crisi è semplice: cominciare a rivendicare, a livello nazionale, il pagamento delle notizie pubblicate su internet perché l’informazione che viaggia gratis sulla rete è un abuso di copyright. I tempi sono maturi perché ci sia una riscossa dei processi e delle regole di civiltà».
Il dibattito
Insomma, occorre riportare in equilibrio un mercato che è totalmente fuori controllo, «per l’assenza di civiltà che sono i social. Le fake news ne sono un esempio in quanto sono un business enorme».
Bellasio, da parte sua, osserva: «La stampa, un tempo, era l’unica forma di informazione, oggi, qualcuno dice è l’unica di disinformazione e questa è la transizione negativa, ma si potrebbe vedere le cose in positivo. La stampa potrebbe certificare che una notizia pubblicata è frutto di un lavoro onesto e giornalistico, diventando un motore di ricerca intelligente, non solo matematico, basato su algoritmi, come Google».
Forse anche per questo le ulteriori quesiti che pone l’Arcivescovo paiono ancora più stringenti.
«Il giornalismo serio è in crisi, non ha più mercato, non è più praticabile, perché? L’informazione, per vendere, deve essere gridata e scandalistica in una logica dove il titolo è più importante dell’articolo?». E, ancora, «La comunicazione è un valore o una merce? Come stanno insieme l’onestà, la libertà dell’informazione e gli interessi economici, politici e culturali? Come il pluralismo si coniuga con questi aspetti? Che cosa significa fare informazione corretta e, se il cittadino ha diritto a questa, non ha anche dovere di cercarla?».
E, poi, la domanda delle domande: «I giornalisti sono pericolosi? Hanno un potere infondato?
Possono distruggere una persona e una carriera? Se sono costretti a essere complici, quale libertà possono avere nel sollevare dubbi nella notizia scandalosa e gridata?».
Qualche prima risposta arriva dal dialogo con i relatori.
Ferrario parte dalla sua esperienza americana e dice: «C’è una sfida che è tutta tecnologica – bisogna passare a una diversa regolamentazione del web – e c’è la sfida personale. Dal 2000 a oggi si è dimezzato il numero dei giornalisti americani, ma, per esempio, il NYT ha aumentato le sue copie, perché ha puntato sulla qualità. La fiducia con i lettori è l’asset più importante che abbiamo come giornalisti. Possiamo migliorare il mondo raccontandolo bene, costruendo ponti e non muri. Il giornalismo è un mestiere che si impara, che passa attraverso un’alleanza di valori, non è una missione, ma basterebbe pensare a cosa vorrebbe dire avere il coraggio di smascherare tante bugie», aggiunge, dettando una sorta di decalogo della professione da lei stessa composto.
Espressioni virtuose cui fa eco Alfieri. «Ogni volta che cerchiamo un’informazione su un motore di ricerca, dobbiamo sapere che non si tratta di un atto neutro, perché vendiamo i nostri dati ad aziende che fanno business. Avremmo bisogno di un rapporto più salubre con queste piattaforme, le quali, tuttavia adesso, specie nel mondo americano, sono anch’esse avviate su una strada di correzione, per usare un termine usato da Mark Zuckerberg, fondatore di Faceboook. Questo potrebbe portare a un rapporto più equilibrato che dia ossigeno al mondo editoriale, anche perché nuovi attori sono scesi in campo e, in fondo, tutti siamo vittime e carnefici della liberalizzazione selvaggia di un’informazione che, fino a 15 anni fa, era un monopolio di cui i giornalisti erano unici sacerdoti. Questo cambiamento ha fatto sì che siamo ancora in una fase di “elaborazione del lutto” ormai durata troppo a lungo. La scelta vincente è alzare la qualità delle proprie produzioni e dei contenuti, tornando a rendere semplice l’informazione, incrociando i mezzi con un utile esercizio di igiene mentale, cambiando, magari, anche pelle sforzandosi di rispondere a nuovi mercati».
Così se per Tiziana Ferrario, «i giornalisti non sono tutti uguali e non hanno tutti la stessa scala di valori», è evidente che sia proprio su questo che si gioca la partita.
La riflessione dell’Arcivescovo
«Chi deve fare informazione? Per essere un giornalista basta saper scrivere? Come distinguere l’informazione fatta da un professionista dalla moneta falsa? Facebook, Twitter, i social, sono strumenti adatti per comunicare come i telegiornali e la stampa?», si interroga Delpini che, in conclusione, chiede un’alleanza tra società, Chiesa e mondo dei media, «con un obiettivo educativa per non perdere intere generazioni».
Da qui la precisa chiave interpretativa suggerita dall’Arcivescovo.
«Quale è la ragione principale per cui si è rotta l’alleanza? Forse il lettore più che romperla è stato distratto, perché, coinvolto e travolto da troppe notizie e sollecitazioni, non ha tempo per riflettere. Più che di sfiducia, parlerei di superficialità e di mancanza di tempo. L’idea che la visione del mondo sia costruita su notizie di cui non conosco il metodo di selezione, lascia incerti».
Positivo, tuttavia, per il Presule, il giudizio sulla consapevolezza della complessità dei problemi emersi. «Non ci si può rassegnare, bisogna prendere in mano la situazione. Invito a un segno di alleanza, proponendo la “decima del giornalista” cioè uno scritto, rivolto soprattutto ai giovani, per dire che c’è una buona ragione per diventare grandi. Uno articolo che si sottragga a un atteggiamento distruttivo e che incoraggi, svegli e apra alla fiducia».
È per questo che, alla fine, arriva la richiesta: «Fate un pezzo sui segni di speranza. Inviate a comunicazione@diocesi.milano.it, entro il 31 gennaio (non a caso la festa liturgica di san Giovanni Bosco), 1800 caratteri firmati, sapendo che l’interlocutore è un diciottenne».
Infine, il consueto dono dello zucchetto episcopale all’Arcivescovo da parte del Commissario straordinario dell’Istituto dei Ciechi, Rodolfo Masto che accompagna monsignor Delpini a visitare, con altri partecipanti all’incontro, il fortunato percorso “Dialogo nel buio”.