La riconciliazione, «sacramento perduto» come lo definisce l’Arcivescovo nell’introduzione alla Lettera della Penitenzieria del Duomo dedicata ai presbiteri, «Ci sarà gioia in cielo» (vedi qui la copertina). Una pubblicazione (vedi qui il testo integrale) sollecitata dallo stesso monsignor Delpini durante il tradizionale incontro del novembre scorso con i confessori della Cattedrale. Tra loro, naturalmente, il Penitenziere maggiore del Duomo monsignor Fausto Gilardi, responsabile anche del Servizio diocesano per la Pastorale liturgica, che spiega: «L’Arcivescovo parte dalla constatazione precisa che il numero di quanti chiedono la celebrazione di questo sacramento si è estremamente ridotto, sensazione condivisa anche da molti sacerdoti in cura pastorale. Quindi si tratta di un dato di fatto a fronte del quale, tuttavia, monsignor Delpini invita a riscoprire alcuni aspetti della bellezza e ricchezza spirituale – per noi presbiteri – della confessione».
Tra questi la “dimensione comunitaria” della riconciliazione che, al di là del momento personale di colloquio tra il penitente e il sacerdote, è fondamentale…
Certamente. L’individualismo che caratterizza la vita delle donne e degli uomini di oggi porta a pensare che il peccato sia una questione unicamente personale – ed è vero, considerando che il peccato è compiuto da un singolo -, invece coinvolge la comunità cristiana, la comunità umana, per cui la richiesta di perdono ha una valenza non solo individuale, ma anche comunitaria. È questo ciò che abbiamo cercato di sottolineare durante la celebrazione penitenziale per la Pasqua svoltasi lunedì 25 marzo (leggi qui).
In quell’occasione vi erano più di 200 fedeli in Duomo (tra cui molti giovani), che si sono tutti confessati…
Mi sembra giusto, e anche bello, richiamare che in Cattedrale, ogni giorno, dall’apertura all’orario di chiusura sono sempre presenti dei confessori e che l’affluenza di chi ricerca questo sacramento è quotidianamente notevolissima. Colpisce la nutrita presenza giovanile e vorrei anche ricordare che le persone spesso cercano di avere contatto sempre con lo stesso confessore, così da creare anche un rapporto di cammino condiviso e di amicizia, che mi paiono “valori aggiunti” importanti.
Nella Lettera si sottolinea come, talvolta, vi sia la mancanza di una visione morale da parte di chi si accosta al sacramento della riconciliazione. Lei, Penitenziere maggiore di una delle più importanti Cattedrali del mondo, nota questo aspetto?
Sì. La gente, anche se non sempre, pensa che tutto ciò che è fattibile dal punto di vista economico o scientifico, sia anche eticamente e moralmente possibile. Questo dipende da una mancanza di formazione o, comunque, è frutto di un’abitudine a pensare e a comportarsi senza avere un riferimento morale preciso. Credo che il contesto di una certa mancanza di consapevolezza del valore morale delle proprie azioni vada inserito in un orizzonte di riflessione più ampio.
Nel sussidio si parla della penitenza sacramentale oggi, «fra ideale e prassi». Forse qualche volta vi è una certa frustrazione in chi amministra il sacramento della penitenza?
L’ideale è la riconciliazione come rinascita; tanto che qualcuno la considera come un secondo battesimo; però, di fatto, vi sono elementi concreti che bloccano la realizzazione di questo ideale perseguito con fatica dai presbiteri.
Quali?
Per esempio il tempo a disposizione, o la fatica che si riscontra quando chi si accosta al sacramento stenta a riconoscere di avere bisogno del perdono del Signore e di rinnovare la propria vita, proprio a partire dal perdono ricevuto.
Voi amministrate la penitenza sacramentale. Però, a vostra volta, siete chiamati a viverla come penitenti, come si evidenzia nella Lettera. È necessario ricordarlo?
Penso di sì: è importante che il prete ricordi che, oltre a essere confessore, è prima di tutto un penitente. Anzi, l’esperienza dice che quanto più un presbitero è penitente e convinto, tanto più diventa anche un confessore attento. L’esperienza del perdono ricevuto diventa, così, responsabilità di fronte alla mediazione del perdono che noi offriamo alle sorelle e ai fratelli che accostiamo nella confessione.
Della triade dei termini che ha utilizzato l’Arcivescovo nella celebrazione penitenziale pasquale – pentimento, riconoscimento della misericordia di Dio e gioia condivisa per essere stati perdonati -, quale è la dimensione che oggi manca più di tutte?
Io sottolineerei, in modo particolare, la seconda. L’Arcivescovo ha utilizzato la parola misericordia, ma, ancora prima, un’espressione molto bella: abbraccio. Il penitente, durante il sacramento della confessione, riceve il grande abbraccio di Dio, che è manifestazione non solo di un amore che perdona, ma di un amore che ricostruisce e che libera. Proprio per questo, come immagine di copertina del volumetto – volutamente distribuito nel corso della Messa crismale – abbiamo pensato al famoso dipinto di Rembrandt, Il ritorno del figliol prodigo del 1668: immagine utilizzata, non a caso, anche per il sussidio della celebrazione penitenziale. Forse pochi sanno che il grande pittore olandese ha disegnato il padre con due mani leggermente diverse: una è tipicamente femminile, molto affusolata, e l’altra più robusta – una mano maschile -, volendo indicare che l’abbraccio della madre comunica tenerezza e misericordia, l’abbraccio del padre forza, ma che tutto è necessario per rialzarsi, tornando a vivere da figli e da uomini liberi.