A 25 anni dalla morte di padre Augusto Gianola, missionario del Pime scomparso nel 1990 a 60 anni, sabato 14 novembre, alle 11, nella Basilica di San Nicolò a Lecco, il cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, celebrerà una Messa in suo suffragio. Di padre Augusto il Cardinale, suo amico personale, ha scritto: «La figura di Padre Augusto Gianola è un dono che lo Spirito ha fatto a tutta la Chiesa e a quella ambrosiana in particolare, la cui preziosità si svela ogni giorno di più. In lui possiamo riconoscere, sia pure combinati in un modo del tutto singolare (ma per chi non è così?), tutti gli inconfondibili tratti della santità».
Papa Francesco in più occasioni ha ripetuto che la Chiesa non è una Ong, facendo capire che esiste uno stile peculiare, per il cristiano, di muoversi nel sociale. Ebbene: padre Augusto Gianola è uno splendido esempio di missionario che ha saputo coniugare la testimonianza cristiana e il servizio al popolo, l’evangelizzazione e la promozione umana. In tempi in cui (gli anni Settanta) l’impegno sociale era spesso viziato da deviazioni ideologiche, egli è sempre rimasto ancorato alla fede in Cristo: «Noi abbiamo fatto la nostra rivoluzione non con Marx in mano, ma con il Vangelo».
Per dare un futuro ai suoi caboclos – i meticci, figli di indios e di bianchi – li ha educati a passare da cacciatori e pescatori a coltivatori. Con loro ha dato il via alle colonie agricole, una sorta di moderne reducciones (le missioni dei Gesuiti nel Sudamerica del Seicento), dove la popolazione viveva comunitariamente, mettendo in comune la produzione di beni e la vita quotidiana, sull’esempio delle comunità cristiane degli Atti degli Apostoli. Successivamente ha fondato una scuola agricola, divenuta nel giro di poco tempo un modello per l’intero Brasile.
Con il suo carattere coraggioso e assetato di avventura, è stato, per tutta la vita, un autentico “nomade”, aprendo piste nuove, avventurandosi dove gli altri non erano mai andati o non volevano andare. Padre Augusto non è mai rimasto fermo a difendere posizioni acquisite, ma si è sempre spinto “oltre”. In questo – credo -sarebbe molto piaciuto a Bergoglio che, parlando ai Gesuiti, li ha invitati a essere “decentrati”, ossia sempre proiettati fuori di sé, in cammino costante.
La vita di padre Augusto è stata una continua ricerca di Dio, a volte anche in condizioni estreme: negli ultimi tre anni ha vissuto in totale solitudine nel fitto della foresta amazzonica. Con la sua esistenza così complessa e avventurosa, non esente da dubbi e crisi, ha insegnato che il cristiano (anche il missionario che parte per gli “estremi confini”) non può mai sentirsi arrivato nella vita di fede, perché tutti siamo chiamati a una continua conversione e a cercare sempre Dio, che resta un Mistero.
Ancora. Chi l’ha conosciuto sa che padre Augusto è stato certamente un prete “fuori dalle righe”, amante sia dell’avventura che dello scherzo e delle sorprese. Ha spesso vissuto tensioni e incomprensioni con i confratelli, al punto che un Superiore generale del Pime disse che «uno come Gianola bastava, due sarebbero stati troppi». Tuttavia, proprio “Augusto il ribelle” in più occasioni ha saputo accettare decisioni scomode. Un esempio? Lui che sognava le montagne della Birmania, alle pendici dell’Himalaya si è ritrovato in una foresta «che più piatta non si può». Avrebbe voluto dedicarsi agli indios dell’Amazzonia, ma il suo vescovo gli affidò i caboclos, indios urbanizzati e meticci, ed egli ubbidì.
Infine, un ultimo elemento di attualità di questa grande figura è l’intensa passione con la quale padre Augusto ha amato il Creato, in tutte le sue manifestazioni: le montagne prima, la foresta amazzonica poi. La natura è stata per lui fonte di contemplazione per la bellezza, ma anche scuola di umanità, perché educa alla coscienza della vulnerabilità dell’uomo come insegna anche l’enciclica di papa Francesco Laudato si’.
(*) Giornalista, curatore della mostra e del libro La più bella delle avventure (Teka Edizioni, Lecco 2015)