Un quartiere non facile, ma anche ricco di orgoglio, di passione e dell’impegno di tanti cittadini «che non vogliono arrendersi, con l’aiuto di tutti, dalla parrocchia agli immigrati». Nella mattina in cui entra nel plesso della case popolari di via degli Apuli, nel contesto della Visita pastorale che sta compiendo al grande Decanato Barona Giambellino, è questo che l’Arcivescovo ascolta dagli abitanti, dalle associazioni di volontari, dai sacerdoti delle parrocchie vicine e dai rappresentanti delle Istituzioni.
Nello spazio (dove all’ingresso vi è un piccolo tabernacolo con la statua della Madonna, «opera del custode che è stato qui 40 anni, fino alla pensione e nessuno lo ha sostituito», dice un’anziana), ci sono tutti: dal vicario episcopale per la Zona I monsignor Carlo Azzimonti al decano padre Francesco Giuliani, dai giovani operatori e urbanisti impegnati nella parrocchia del Santo Curato d’Ars al presidente del Municipio 6 Santo Minniti con alcuni collaboratori, per arrivare al parroco don Ambrogio Basilico.
È lui che – dopo l’intervento di Rossella Sacco che anima l’incontro – dice, citando il Discorso alla Città 2022 dell’Arcivescovo: «Le case popolari sono solo un pezzetto del problema dell’abitare a Milano, dove i poveri faticano a trovare casa. Oggi, molti di quelli che erano venuti ad abitare qui hanno lasciato e molte case sono rimaste vuote: cosa che, non ci stancheremo di ripeterlo, ci scandalizza. Perché è un invito all’occupazione e l’illegalità tira altra illegalità».
Ed è questa, in effetti, un po’ la preoccupazione che si respira quando prende la parola Ulla Manzoni, che da 25 anni abita al civico 5 di via degli Apuli.
La voce degli abitanti
«Per questo incontro, da due giorni puliscono la strada qui davanti, ma noi viviamo in uno sporco perenne. Diamoci da fare: io sono laica, ma se c’è da fare qualcosa cerchiamo di aiutarci tutti, perché qui mancano i medici, le case, gli operatori di strada, i servizi di base. Non possiamo più vivere in questo modo. Parlano sempre delle periferie e poi non si fa niente. Non.ci sono più portieri, gli anziani sono abbandonati. Diamo sempre la colpa agli extracomunitari, agli zingari, ma se non ci veniamo incontro tra noi, come si fa?», denuncia Ulla, con la voce tremante di emozione.
Francesco Lorusso, autore del libro fotografico Terre di Mezzo_Giambellino 147, aggiunge. «Qui l’integrazione è lontana anni luce, ma è bello cercare di trovare cose belle in questo quartiere che di bello ha poco».
Parole cui fa eco Alice Ranzini, urbanista: «Nella “Casetta verde” di via Odazio (poco lontana, ndr) facciamo attività di coesione sociale. Sono tre le questioni: il peggioramento delle condizioni economiche di chi abita in questo territorio, aggravate dal post-pandemia; la casa, perché la casa pubblica è una delle leve più importanti per lavorare sul tema delle povertà e la necessità di costruire insieme una visione per il futuro, tutelando il patrimonio dell’Erp. Qui si stanno riqualificando scali ferroviari e arriverà la nuova Metropolitana 4: potrebbe esservi un innalzamento dei prezzi abitativi. Dove andrà allora questa gente?», conclude Ranzini, ricordando il “Fondo di Comunità Giambellino-Lorenteggio” che svolge attività di solidarietà e aiuto materiale, al quale partecipano quattro parrocchie del territorio.
Le istituzioni
È poi la volta delle Istituzioni, rappresentate da Francesca Gisotti, nata proprio al Giambellino, vicepresidente del Municipio 6 e assessora ak Welfare, Servizi civici e sociali, Casa, Lavoro, Coesione sociale: «Occorre rafforzare il rapporto con chi gestisce la cosa pubblica, tessere un legame forte. Ricordo che quarant’anni fa si stava benino qui, ora si sta molto peggio e questo è inaccettabile. La parrocchia, in questo contesto, è importante. Non lamentiamoci sempre, perché ci sono tante fiammelle di gioia tra noi», sottolinea.
«Qui il tema enorme è quello delle case popolari, perché Milano attrae molto, ma rischia di espellere gente che Milano l’ha costruita – scandisce da parte sua, il presidente del Municipio, Santo Minniti -. La casa popolare diventa spesso una gabbia che instaura un circolo vizioso da cui si fa fatica ad affrancarsi. Milano è l’esempio di una città che diventa sempre più ricca, ma le risorse concentrate sul pubblico sono sempre meno, e questo è particolarmente visibile in contesti come questo. Se non curiamo le storture che la società genera, si creeranno percorsi di vita sempre più difficili e la gente delle periferie avrà come un marchio di fabbrica addosso». Insomma, uno stigma a prescindere da ogni speranza e tentativo di avere una vita migliore. Quella che, invece, nel suo intervento finale auspica l’Arcivescovo.
Le parole dell’Arcivescovo
«Sono venuto qui per la Veglia ecumenica all’inizio del mio episcopato ambrosiano, quando abbiamo attraversato una parte del quartiere pregando. Una seconda volta, allorché con l’allora questore (Marcello Cardona n.d.r.), abbiamo compiuto, in incognito, una visita alle case popolari che metteva in evidenza l’illegalità. Poi sono stato al Campus del Politecnico, in una periferia diversa come San Siro. Queste visite mi suggeriscono qualche parola che dico nel contesto della Visita pastorale», osserva subito, auspicando tre “rivoluzioni”.
«Penso che abbiamo bisogno di una rivoluzione spirituale, trovando dentro ciascuno di noi le forze per sperare, avere fiducia e costruire rapporti. Non mi piace dare etichette e dire “periferie” perché questo, come altri, è un quartiere. Anche etichettare tra italiani e stranieri è sbagliato: parliamo di persone La rivoluzione spirituale vuole dire seminare fraternità, tra persone che si predispongono a costruire rapporti di stima. C’è bisogno anche di una rivoluzione culturale, affrontando, con competenza e strumenti scientifici, percorsi praticabili per immaginare una città solidale e non a due velocità, con ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. La cultura deve diventare ispiratrice di questo rilancio. Infine, occorre un intervento che respinga la malavita e l’illegalità e che faccia capire che non è lo stesso comportarsi in modo onesto o fare il male. La società deve dire che chi rovina i giovani vendendo droga non ha diritto di stare qui, se non cambia vita. C’è poi bisogno di una rivoluzione dell’organizzazione delle Forze dell’ordine sul territorio. La speranza non possiamo che coltivarla insieme, con capacità di guardare al futuro, come si dimostra qui con le tante associazioni, l’intraprendenza della parrocchia e il “Fondo di Comunità”».
Infine – prima di un caffè consumato convivialmente tutti insieme nell’abitazione di Ulla -, la preghiera comune e la benedizione: «Desidero che sentiate la Chiesa vicina, disponibile. Non si diventa clienti della Chiesa, ma fratelli e sorelle che costruiscono la comunità sapendo che la potenza di Dio von ci abbandona mai e ci rende alleati del bene».
E, alla fine della mattinata, la breve visita al vicino Mercato Comunale Lorenteggio, centro della vita del quartiere dal 1954, oggi più che mai vivace tra commercio, solidarietà e responsabilità sociale. Una di quelle cose “belle” che costruiscono, appunto, vita buona.
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