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Beatificazioni

Fra Daniele e padre Arsenio, cappuccini verso gli altari

Il religioso di Samarate è divenuto Venerabile, mentre quello di Trigolo verrà dichiarato Beato il 7 ottobre in Duomo. Ne parliamo con monsignor Ennio Apeciti, responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei Santi e rettore del Seminario Lombardo di Roma

di Annamaria BRACCINI

23 Maggio 2017
Fra Daniele da Samarate e padre Arsenio da Trigolo

Negli ultimi mesi papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare i decreti riguardanti le virtù eroiche del Servo di Dio Daniele da Samarate, divenuto così Venerabile, e il miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio Arsenio da Trigolo, che il prossimo 7 ottobre in Duomo verrà dichiarato Beato. Sono entrambi sacerdoti cappuccini che vissero tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo Novecento.

Fra Daniele (al secolo Felice Rossini) nacque a San Macario, frazione del Comune di Samarate (Varese) il 15 giugno 1876. A 14 anni iniziò il suo cammino tra i frati cappuccini con il nome di fra Daniele da Samarate. Non ancora sacerdote, nel 1898 ottenne di partire per la missione del Maranhão (Brasile): venne ordinato l’anno successivo a Fortaleza. Quando morì nel lebbrosario di Tucunduba, il 19 maggio 1924, dopo aver contratto la lebbra nell’esercizio del suo ministero, aveva 48 anni, 26 dei quali passati in missione.

Padre Arsenio (al secolo Giuseppe Antonio Migliavacca) nacque a Trigolo (Cremona) il 13 giugno 1849. Nel 1863 entrò nel Seminario diocesano di Cremona e fu ordinato sacerdote nel 1874. L’anno successivo passò alla Compagnia di Gesù, entrando infine tra i Cappuccini con il nome di padre Arsenio Maria. Nel 1892 fu incaricato dall’Arcivescovo di Torino di seguire un gruppo di aspiranti suore: fu quello il nucleo delle Suore di Maria Ss. Consolatrice, di cui fu il fondatore. Morì a Bergamo il 10 dicembre 1909; i suoi resti mortali riposano nella cappella della Casa madre delle Suore di Maria Ss. Consolatrice a Milano (via Melchiorre Gioia 51).

Nella grande fioritura di carismi che ha caratterizzato la Chiesa ambrosiana tra la metà dell’800 e il secolo scorso, le due figure si possono definire ambrosiane. Ebbero vite diverse, ma accomunate dall’umiltà nutrita di carità, l’amore per il Signore e per i fratelli vissuto senza risparmio personale. Lo sottolinea monsignor Ennio Apeciti, responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei Santi e rettore del Seminario Lombardo di Roma.

Come è stata la vita di padre Arsenio e perché è stato elevato agli altari?
Di lui già il cardinale Martini, quando vi fu l’inizio del processo diocesano nel 1998, disse: «Lo conosco bene: per me è il martire del silenzio». Infatti fu dapprima sacerdote della Diocesi di Cremona e poi divenne Gesuita. In seguito ad alcuni sospetti di imprudenza, per evitare ogni problema i Gesuiti gli chiesero di lasciare la Compagnia e lui – umilmente, seppure con grande sofferenza – obbedì. In seguito gli fu affidata la cura di un Istituto, che aveva presenze a Torino e a Milano, con una fondatrice, o presunta tale, che si rivelò una figura non chiara. Fu il beato cardinale Ferrari che, conoscendo padre Arsenio, volle che svolgesse la sua opera nella zona tra la Stazione Centrale e quella di Porta Garibaldi, allora in estrema periferia e segnata da povertà e degrado morale. Sopraggiunse, poi, una nuova prova, con alcune accuse. A quel punto, su consiglio sempre dell’arcivescovo Ferrari, lasciò la guida dell’Istituto e scelse di diventare Cappuccino. Nel silenzio, accettò questa scelta pur di salvare la “sua” Congregazione, che adesso è fiorente.

E padre Daniele da Samarate?
La sua vicenda è meno contrastata. A 22 anni, non ancora sacerdote, ottenne di poter partire subito per la prima missione dei Cappuccini in Brasile nel Mato Grosso, a Maranhão: fu ordinato prete a Fortaleza. Volendo diffondere il Vangelo, andò a Tucunduba, nel lebbrosario allora chiamato «L’anticamera dell’inferno». Soccorrendo i lebbrosi, fu contagiato: decise comunque di vivere insieme a loro, sempre ripetendo «Deus seja louvado», ossia «Dio sia lodato». Mi ha colpito la scelta: malato tra i malati, volle essere ancora sacerdote, ancora missionario.

Con Milano mantenne contatti?
Sì. Anche oggi, nella portineria dei Cappuccini di viale Piave in città, fa bella mostra una gigantografia di padre Daniele consumato dalla lebbra. Lì l’aveva voluta fra’ Cecilio Cortinovis, un altro dei nostri candidati agli altari (è Servo di Dio, ndr): avrebbe voluto partire per il Brasile proprio per prendere il posto di padre Daniele, ma fu “condannato” a restare in quella portineria e lì è diventato apostolo della carità e santo.

Padre Daniele è un esempio anche per l’oggi?
Certamente. In un certo senso fu un maestro per Marcello Candia, anch’egli Venerabile. Da giovane, andando a trovare i frati, vide la sua grande foto e conobbe il suo esempio: uno dei motivi che lo spinsero a scegliere di partire per il Nord-Est del Brasile.

Cosa l’ha colpita di più nell’iter dell’una e dell’altra Causa?
A livello personale, mi ha sempre commosso la dolcezza di padre Arsenio, la sua umiltà vissuta nel silenzio anche nell’essere umiliato, rimanendo sempre paziente, generoso e accogliente. In padre Daniele, la gioia: se penso a noi oggi – io per primo – a cui basta un nulla per scoraggiarsi, una storia come la sua, mi ri-incoraggia. Sono stato più volte in Brasile: in quella zona attorno all’Equatore, immersa nella foresta, lontana da ogni comunicazione, è ancora viva la sua fama, la sua presenza di donazione totale.

Qual è stato il miracolo compiuto da padre Arsenio, riconosciuto il 21 gennaio scorso, a un anno esatto dalla dichiarazione della Venerabilità?
Il miracolo è stato operato su una suora del suo Istituto malata di tisi polmonare e intestinale. Il 17 ottobre 1947 la religiosa chiese di scendere in Cappella, dove era in corso l’Adorazione eucaristica: era ormai in fin di vita. Mentre veniva impartita la Benedizione eucaristica, con la preghiera al Padre fondatore, si sentì la suora che gridava: «Sto bene!». Dato che erano tre giorni che non mangiava, chiese del cibo: quella sera c’era minestrone di fagioli – non proprio un cibo da malati… – e ne volle due porzioni: da quel momento, stette sempre bene.

E per padre Daniele?
Il suo miracolo, che speriamo di poter confermare presto, riguarda invece un bambino: i genitori lo affidarono al Cappuccino perché sapevano che era stato capace di farsi carico delle malattie più faticose e dolorose. Nel bimbo si verificò una ripresa.