Nel 1966 ero un giovane professore di liceo appena laureato, presidente della Fuci di Milano. Nei giorni della tragica alluvione di Firenze, decidemmo come universitari cattolici milanesi di venire tutti insieme a dare una mano. Per circa quattro mesi assicurammo la nostra presenza nel capoluogo toscano. Ricordo che si iniziò spalando in Santo Spirito, poi fummo trasferiti in gruppo allo Spedale degli Innocenti, in piazza Santissima Annunziata, dove spalammo il fango riuscendo anche a recuperare parecchi preziosi fogli di alcuni manoscritti della biblioteca, travolti dalla furia delle acque. Fu per noi un’occasione di straordinaria importanza, proprio perché venivamo da una certa esperienza di divisione tra giovani studenti cattolici, anche da una certa dialettica, e il fatto di aver lavorato insieme in quei mesi a Firenze favorì la nascita di un’amicizia tra noi, con il superamento delle tensioni prima presenti all’interno dell’Associazione. Sono stati momenti molto belli, come sempre accade quando si dona qualcosa di sé agli altri.
Soprattutto ho ancora ben nitido nella memoria, in modo del tutto particolare, il ricordo dell’incontro che il Sindaco Bargellini volle organizzare a Palazzo Vecchio con tutte le realtà giovanili venute a prestare il loro aiuto a Firenze per dirci tutta la riconoscenza della città. Fece un discorso degno del suo stile di vita cristiana, e anche della traduzione civile di questo stile, in continuità con la sensibilità di La Pira, ma anche con quel suo personale accento, molto affascinato dal tema della santità, a cui dedicava le popolari e seguitissime trasmissioni radiofoniche. Ricordo anche bene la grande solidarietà della popolazione e lo stemperarsi, giorno dopo giorno, della sofferenza, della fatica, del dolore, della grande prova. Tanti anni dopo, quando il Papa mi nominò Patriarca a Venezia, venni a sapere che la grande alluvione di Firenze aveva del tutto oscurato la terribile alluvione subìta anche da Venezia, che diede inizio ai grandi guai con cui la città ancora oggi deve fare i conti.
Nel ’66 io non ero ancora entrato in Seminario, stavo maturando la mia vocazione, ma certamente quegli anni di esperienza, prima in Gioventù Studentesca e poi nel mondo universitario, sono stati molto preziosi per me. Anche perché, contrariamente a quello che si pensa, lo studio non sta solo nelle “sudate carte”, ma sta anche nello scambiare, in termini informali, nell’interloquire. Noi ci interrogavamo con passione sul significato, persino culturale, in senso nobile, di un’azione caritativa di fronte al disastro dell’alluvione, impegnati a scoprire come la carità consenta quello sguardo che fu lo sguardo di Gesù sulla realtà del mondo. E da lì poi partire per avere il dono di una sapienza su cui innestare i diversi saperi. Mi ricordo come, la sera, con il buio che ci costringeva a interrompere il lavoro, si stava insieme, cantando, discutendo del più e del meno, ma soprattutto ho la viva memoria di come da questo nostro stare insieme nascesse una conoscenza nuova, una nuova capacità di fare cultura.
Ho parlato spesso ai giovani, soprattutto da quando sono arrivato a Venezia, della esperienza fatta nei giorni successivi all’alluvione di Firenze, per far capire loro un’idea che mi sta molto a cuore: quella che io definisco «educazione al gratuito». Come cristiani abbiamo bisogno tutti quanti di vivere con fedeltà e con un ritmo regolare, come facciamo partecipando ogni domenica all’Eucarestia, dei gesti di condivisione, donando una parte del nostro tempo agli altri, condividendo i bisogni dei più poveri, con l’unico scopo di imparare ad amare, perché un equivoco molto diffuso oggi è che tutti sappiano cos’è l’amore. E perciò non s’impegnano a impararlo.
È un errore gravissimo, perché invece a donare se stessi si impara, come ci ha insegnato Gesù in tutta la sua vita e come ci hanno insegnato i grandi santi della carità.