«La solitudine del malato terminale è una condizione drammatica che pone la questione se la vita sia desiderabile o detestabile. La vita è desiderabile in primo luogo per le relazioni con le persone che appartengono alla cerchia delle persone amate. La separazione dalle persone care è un dolore tremendo, la prossimità delle persone care è una gioia impagabile. La vita è desiderabile per la bellezza della vita, del mondo, della storia umana. Infatti la vita è interessante e il piacere “estetico” della contemplazione della vita è una esperienza di gioia: vedere i bambini giocare e divertirsi, vedere le persone volersi bene, vedere i colori della natura, vedere i comportamenti degli animali, specie di quelli con i quali si è stabilito un rapporto “affettivo”, sono aspetti che rendono “bella” la vita anche in una camera di ospedale o di hospice. Il contesto “brutto”, al contrario, può indurre a una sorta di desolazione irreparabile».
Questo il “cuore” dell’intervento dell’Arcivescovo che ha concluso la tavola rotonda nel contesto dell’articolato convegno dal titolo «Vivere sempre la propria vita. Un dialogo tra scienza, etica e cura», svoltosi nell’Aula Magna dell’Istituto Nazionale dei Tumori. Un’assise affollata di medici, docenti, operatori sanitari e cappellani (la Cappellania dell’Irccs era la prima promotrice dell’incontro insieme alla Fondazione dell’Istituto), che è stata anche occasione per la presentazione del saggio Piccolo Lessico del Fine-Vita della Pontificia Accademia per la Vita, il cui presidente, monsignor Vincenzo Paglia, ha preso anch’egli la parola alla tavola rotonda.
L’“Abc” sul fine-vita
«Sostenere e promuovere le cure palliative è assolutamente necessario, ma occorre anche una comprensione effettiva e corretta di che cosa siano – ha detto -. C’è un’ignoranza incredibile su questi temi, ma questa prospettiva ridona un senso più profondo alla medicina ordinaria che sembra averlo perso. Valorizzare la palliazione è una “porta” che aiuta tutta la medicina a ricomprendersi e a prendersi tutti cura del malato, per tutti i giorni fino alla fine».
Su un’ulteriore ignoranza enorme, come l’ha definita, si è soffermato ancora monsignor Paglia: «Certamente vi è quella sul fine-vita, ma soprattutto sul fine della vita di cui non si parla mai, ossia sulla domanda di senso che pongono i malati, e infatti a questo è dedicato l’ultimo capitolo del Lessico. Di fronte alle polemiche sorte sulle questioni legislative, ho pensato che fosse giusto spiegare almeno i termini di ciò di cui si parla. Io sono molto favorevole che un dibattito sul fine-vita esca dalle aule parlamentari e dagli ospedali, arrivando nella società. Questo “Abc” di 85 pagine strutturato su 22 termini vuole rendere più consapevoli di questi aspetti credenti e non, credenti in altre fedi, perché il dibattito sia il più largo possibile: se si deve fare una legge, auspichiamo che si possa basare su un consenso il più ampio possibile, perché questo non è un tema che può essere lasciato solo ai partiti o alle ideologie. Un conto è dare la morte – ha scandito Paglia – e un altro ostinarsi a non permetterne il cammino con un accanimento terapeutico. Mi auguro che al di là della legge, di quella che verrà, vi sia sempre un’alleanza terapeutica. La legge può aiutare, ma dobbiamo capire, e soprattutto sottolineare, il primo lemma di questo Lessico che tutti li riassume, ossia “accogliere” che è il punto fondamentale».
Dare senso alla vita
«Operare in questa grande istituzione, essere qui per noi vuole dire offrire a ogni paziente l’accoglienza che merita, facendo sentire il rispetto che abbiamo per la sua persona – ha spiegato Gustavo Galmozzi, presidente della Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori -. Il fine è di consentire al malato il libero e responsabile esercizio delle proprie scelte di vita. Ognuna di queste va accompagnata, rispettata e non va indotta, in modo che ognuno possa vivere degnamente la vita, nella consapevolezza che i pazienti che si rivolgono a noi chiedono di essere abbracciati dalla vita e questa e l’opportunità che offriamo. Sappiamo quanto grande sia il punto di forza che risiede nelle relazioni personali e familiari, specie nel momento nel quale il malato vive la sua fragilità e una rinnovata richiesta di senso. Ciò pone la questione della formazione del personale e questo è l’impegno che vogliamo onorare».
Parole a cui ha fatto eco Giovanni Migliore, presidente di Fiaso (Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere, co-promotrice del convegno), che ha affrontato la questione della «scelta del domicilio come primo luogo di cura. Oggi abbiamo gli strumenti e in questo dobbiamo investire qualche risorsa in più. Scegliere un fine-vita insieme ai propri cari in un ambiente familiare è la decisione più giusta».
La vita desiderabile
E sul valore delle relazioni ha insistito anche l’Arcivescovo, evidenziando l’importanza «delle cure palliative e la problematicità, oggi, di una prospettiva di deriva individualistica nella cura. La malattia mortale, inguaribile, non interrompe le relazioni, ma rende possibile una particolare intensità di queste. Le parole da dire anche “sul letto di morte” hanno un significato ed esprimono un modo di portare a compimento la propria vocazione».
«L’intento del Piccolo Lessico è quello di offrire una chiarificazione provvidenziale sui termini che si usano per chiarire temi così complessi e drammatici, messi all’ordine del giorno dalle condizioni di vita rese possibili dalla medicina contemporanea», ha proseguito monsignor Delpini, proponendo una visione interpretativa della «vita desiderabile» e facendo l’elogio di luoghi come gli hospices: «La vita è desiderabile per il bene che si può fare: c’è infatti un gusto nel fare il bene, anche in totale gratuità. Sempre, anche in condizioni di malattia mortale, si può pregare, sempre si può sorridere, sempre si può dire una parola buona, sempre si può dedicare del tempo ad ascoltare». Una vita che, in situazioni difficili e dolorose, permette così una conoscenza più profonda «di sé, di Dio, degli altri».
Infatti, «ci sono forme di malattia o di disabilità che consentono di “stare bene” con se stessi, accettando i limiti imposti dal fisico. Tutto il capitolo delle cure palliative è un esercizio di conoscenza e di scienza che contribuisce a rendere comunque desiderabile vivere. L’esperienza della malattia, se non toglie la lucidità, è una scuola severa, ma preziosa: impone infatti domande difficili e affascinanti, permette di dare nuovi significati alle parole, alle relazioni, alle pagine evangeliche. Il tempo della malattia e la consapevolezza di avvicinarsi alla morte può consentire un modo inedito di pregare, di valutare la propria vita, fino a propiziare la conversione e il desiderio di Dio, fino a rileggere la storia per dare il giusto nome a quanto si è fatto. In particolare, l’esperienza del male irrimediabile può favorire una particolare consapevolezza della comunione con Gesù insultato, torturato, crocifisso».