«La mia è un’esperienza di missione molto particolare, perché il senso della nostra presenza a Cuba è quello di essere in mezzo alla gente, condividendo le fatiche laddove si vive con sofferenza la quotidianità. Essere un segnale di speranza è fondamentale ed è questo il nostro ruolo»: a raccontare così i suoi anni nell’isola caraibica è don Marco Pavan, dal 2017 a Palma Soriano come fidei donum.
Che tipo di città è Palma Soriano?
Conta circa 125 mila abitanti, con una realtà urbana dove risiedono 75 mila persone, a cui si aggiungono diverse comunità rurali. In città abbiamo attività per gli adolescenti e attenzione agli infermi. Una quindicina di case-missione sono centri di preghiera, di pastorale, di catechesi.
Vi sono sacche di povertà importanti?
Sì. Soprattutto perché, in questi ultimi anni, si è registrata una profondissima crisi economica, nata con la pandemia. Ora c’è scarsità di beni, di alimenti, di medicinali e noi cerchiamo di dare il nostro piccolo contributo, anche semplicemente condividendo la situazione.
Come è accolto un prete che viene dall’altra parte del mondo?
L’incidenza della Chiesa a Cuba è molto modesta: i cristiani cattolici sono intorno al 5%, sono presenti molte Chiese protestanti e pentecostali. Anche il numero dei preti è decisamente ridotto: nella mia Diocesi siamo una trentina di sacerdoti, di cui 20 stranieri. Il rischio, per i preti che vengono dall’’estero, è che la gente associ la Chiesa all’idea della ricchezza, dell’avere tanti mezzi a disposizione. Bisogna smontare questo immaginario: per questo abbiamo scelto la linea della povertà.
Perché ha accolto l’invito del cardinale Scola ad andare a Cuba?
Fino ad allora non avevo mai pensato che l’esperienza di fidei donum potesse riguardarmi, ma le parole del Cardinale mi hanno interpellato in prima persona. Da qui è nata la mia disponibilità, un’apertura di cuore, cercando di capire cosa volesse dire essere missionario, partire per la terra di Cuba. Così sono entrato in quest’avventura.
Riuscite a fare comunità assieme ai preti di altre nazionalità?
Nella Diocesi di Santiago sono presenti davvero tante nazionalità: preti dell’America Latina, europei, asiatici… Camminare insieme è estremamente difficile, ma è anche fondamentale. Per questo tutti i lunedì ci incontriamo con il Vescovo, anche semplicemente per condividere il pranzo, e poi un lunedì al mese si realizza un momento di formazione e di condivisione. Queste occasioni ci aiutano a creare un tessuto comune e a confrontarci sulle nostre idee di Chiesa e di pastorale.
Insomma, una vera «Chiesa dalle Genti» anche come clero…
Sì. Veniamo da varie esperienze pastorali, siamo diocesani e religiosi, e questo aiuta ogni volta a porci la domanda: «Il modo con cui faccio pastorale è l’unico possibile?». Un interrogativo che obbliga a mettersi in ascolto degli altri, della gente, ma soprattutto di ciò che lo Spirito sta chiedendo alla Chiesa.
L’Arcivescovo è già stato a Cuba nel 2018, quando lei era già presente. È cambiato qualcosa, anche se il lasso di tempo è molto breve da allora?
L’Arcivescovo troverà un’isola e un contesto sociali molto differenti. La crisi economica è durissima. Per questo molti stanno lasciando il Paese e anche la Chiesa sta soffrendo: abbiamo bisogno di ritrovare speranza e il volto della gioia del Vangelo.