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Sirio 18 - 24 novembre 2024
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Giambellino

L’Arcivescovo: «La Chiesa dalle genti custodisce l’originalità cristiana»

Nella Domenica di Pentecoste, nella parrocchia del Santo Curato d'Ars monsignor Delpini ha celebrato la Messa per la Festa che ogni anno riunisce le comunità cattoliche di diverse provenienze: «Abbiamo bisogno gli uni degli altri per conoscere Gesù e il Padre»

di Annamaria BRACCINI

19 Maggio 2024
Il momento dell'Offertorio (Agenzia Fotogramma)

I discepoli di Gesù che sono originali, perché vogliono l’unità e la pace in un pianeta segnato dalla scia di sangue delle divisioni e delle guerre; perché sentono il Signore vicino in un mondo che spesso lo considera lontano e inesistente. Discepoli originali, comunque, nonostante le «derive della mentalità mondana».

E così, in una mattina di Pentecoste piena di sole, di colori, in una delle periferie simbolo della grande città multietnica, il Giambellino, tra case popolari e grandi condomini sempre più alti, l’originalità si tocca con mano, si respira nei profumi dei cibi etnici, si vede nelle fisionomie che parlano di origini lontane, si ascolta nella Babele delle lingue che si intrecciano. E che, di colpo, diventano silenzio e canto quando inizia la celebrazione eucaristica che l’Arcivescovo presiede, in occasione della Festa diocesana delle Genti 2024, «Vidi una moltitudine immensa», nel grande spazio verde dell’oratorio della parrocchia del Santo Curato d’Ars, che fa parte della Comunità pastorale Maria di Magdala. Parrocchia che già lo scorso anno ha iniziato a celebrare la Festa dei popoli, con una tre giorni il cui culmine, quest’anno, è la Festa diocesana.

L’Arcivescovo benedice i fedeli presenti (Agenzia Fotogramma)

La celebrazione e la festa

Tanti i gazebi, approntati fin di prima mattina, con i colori delle bandiere nazionali, i nomi delle cappellanie, i prodotti tipici dei Paesi di origine, per un giorno di preghiera e conviviale, vissuto tutti insieme: filippini e latino-americani – i più numerosi -, ma anche cinesi, coreani, srilankesi, eritrei, copti, libanesi, albanesi, polacchi; e ancora, rumeni e ucraini di rito latino e di rito bizantino e le varie comunità di cattolici francofoni e anglofoni.

Al cuore della Messa – concelebrata da oltre 20 sacerdoti di altrettante Cappellanie -, l’intenzione è per la pace, come dice, nel suo saluto di benvenuto, don Alberto Vitali, responsabile dell’Ufficio per la Pastorale dei Migranti e parroco di Santo Stefano Maggiore, parrocchia personale dei Migranti: «In questo momento, voglio farmi portavoce dei presbiteri delle comunità migranti, i quali mi hanno espressamente incaricato di chiederle, quale intenzione particolare della Messa, l’intercessione per la pace. Non soltanto, infatti, sentiamo parlare di quanta violenza ci sia nel mondo, ma molte persone qui presenti hanno familiari e amici coinvolti nei vari conflitti, se non addirittura vittime degli stessi. Nella gioia della Pentecoste, desideriamo rinnovare il proposito di servire la vita di tutti, non soltanto a parole e nei momenti di festa, ma con gesti di prossimità quotidiani, coscienti che sia davvero un dono ricevuto».

E proprio invocando il dono dello Spirito e chiamando alla solidarietà, si avvia la celebrazione con l’Arcivescovo che, scendendo dal semplice altare attrezzato all’aperto, cammina a lungo tra i fedeli aspergendoli con l’acqua benedetta.   

Dopo i canti tradizionali affidati ai membri delle diverse cappellanie – così come accade per l’intera animazione liturgica della Messa -, l’omelia di monsignor Delpini, seguendo la pagina del Vangelo di Giovanni al capitolo 14, si incentra su quei «discepoli originali» che sono (o dovrebbero essere) i cristiani.

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I discepoli originali

«Gli uomini e i popoli si dividono, i discepoli di Gesù sono radunati in unità; le persone si vantano delle loro qualità e delle loro doti per imporsi sugli altri, i discepoli ricevono i doni di Gesù e li mettono al servizio del bene; le lingue diverse rendono impossibile intendersi nel mondo, le diverse culture sono incomprensibili e incomunicabili tra loro, invece, i discepoli di Gesù riconoscono in tutte le lingue e in tutte le culture la vocazione a diventare gloria di Dio e patrimonio condiviso con i fratelli e le sorelle: sono originali», scandisce l’Arcivescovo che prosegue: «Gli uomini e le donne si sentono orfani, i discepoli di Gesù vivono in comunione con Gesù. Gli uomini e le donne non sanno che cosa fare e distinguere il bene dal male, i discepoli osservano i comandamenti di Gesù, nel decidere che cosa fare, si ispirano alla vita e alle parole di Gesù».

Tra gente che «che si immagina un dio lontano, inutile, indifferente, scomparso dalla vita e dalla ricerca della felicità, i discepoli sono commossi dalla rivelazione che Gesù li chiama amici e rivela a loro che Dio è Padre, è amore, che lo Spirito di verità unisce i molti nell’immensa moltitudine perché diventino un cuore solo e un’anima sola come figli uniti nella fraternità dallo Spirito».

Un’originalità, tuttavia, che – avverte – oggi è a rischio a fronte di fatti indiscutibili e sotto gli occhi di tutti, come la divisione tra le Chiese di fronte alla guerra. «Invece della pace, anche in Paesi di tradizione cristiana, c’è la guerra; invece che la comunione dentro le comunità cristiane, talora, sono più evidenti le tensioni, i puntigli, i personalismi; invece che l’intesa e la ricchezza delle differenze unite nel nome del Signore, le differenze anche tra i cristiani diventano motivo di incomunicabilità, e ogni gruppo linguistico, ogni tradizione religiosa rischia di chiudersi in sé stessa».

Insomma, suggerisce, siamo «discepoli sempre tentati di uniformarsi alla mentalità mondana seppure originali».

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«Grazie, aiutami, eccomi»: le tre parole-chiave

Come dunque vivere ed edificare una vera Chiesa dei popoli? Tre le indicazioni definite dall’Arcivescovo «opportune». In primis, la riconoscenza: «Ogni carisma è un dono, non un motivo di vanto, ma un seme di gratitudine. Rendiamo grazie per riconoscere i doni che ogni lingua, popolo, nazione, ha ricevuto».

Poi, aiutarsi perché abbiamo bisogno gli uni degli altri e, da questo punto di vista, siamo tutti poveri: «Nessuno basta a se stesso, nessuno ha capito da solo tutto il Vangelo, nessuno può fare la Chiesa da solo. Perciò, fratello, sorella, ho bisogno di te, per conoscere Gesù e il Padre, ho bisogno di te per essere Chiesa, per essere cantico di lode, per essere felice: aiutami».

La danza delle ragazze dello Sri Lanka (Agenzia Fotogramma)

Infine, il servizio, l’eccomi: «Ogni dono è per il bene di tutti. In che modo la mia cultura, la mia lingua, la mia vita arricchisce la Chiesa, questa Chiesa in cui vivo, prego, amo, soffro? In che modo il mio patrimonio culturale, le mie speranze, le mie ferite edificano questa Chiesa?». Appunto con quelle tre parole, «grazie, aiutami, eccomi», che ripete in italiano, inglese, spagnolo, francese.

A conclusione della celebrazione, animata da una Chiesa dalle genti che non è il futuro, ma è già qui, come è evidente nella danza delle graziose ragazze dello Sri Lanka che portano i doni all’altare, o nella presenza di un gran numero di bimbi con i loro giovani genitori di tante differenti etnie, il breve intervento finale del responsabile della Comunità pastorale, don Ambrogio Basilico, è un semplice riconoscere la realtà di tutti i giorni: «Qui, l’anno scorso all’oratorio feriale, avevamo rappresentate 25 nazionalità diverse. La sfida è far diventare i fedeli migranti sempre più protagonisti». 

Protagonisti come fedeli e come fratelli tutti nella comunione che unisce la quasi totalità dei presenti nel ricevere l’Eucaristia, e nell’allegra, spontanea condivisione conviviale del pranzo e del successivo spettacolo che suggellano la giornata.

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